Complessa, ineffabile, malinconica. Silvana Mangano – che oggi avrebbe compiuto 90 anni – è stata senza ombra di dubbio l’attrice più affascinante e ambigua del nostro cinema. Capace di una transizione come poche: passare con naturalezza dalle risaie piemontesi ai red carpet di Hollywood. Asciugando la sua bellezza procace fino a sfumarla nel concettuale, grazie anche a un volto da scultura egizia. Al netto poi di una preparazione tecnica inesistente, Silvana è riuscita ad attraversare molte stagioni del cinema italiano, dal neorealismo alla commedia.
Fino ai film d’autore, quando ormai si era trasformata in una presenza astratta e filiforme, affrancata da quel corpo atomico che le era insopportabile. Come del resto la mondanità e gli obblighi del lavoro: il mondo sfavillante offertole dal suo essere moglie di uno dei più grandi produttori italiani di tutti i tempi (Dino de Laurentiis) e le interviste, rilasciate col contagocce. Dunque una personalità indecifrabile e contraddittoria che, a distanza di trent’anni dalla morte, non smette mai di affascinare. Ma soprattutto di interrogare.
Silvana Mangano diva in un giorno
L’anno è il 1949, e sui manifesti del film Riso amaro di Giuseppe De Santis campeggia un volto e un corpo destinato a entrare da subito nell’immaginario collettivo. Silvana Mangano, appena diciottenne, è in in primo piano, il suo sguardo, diretto all’osservatore, è fiero e le curve del suo corpo sono molto accentuate. “Oggetto” di desiderio consapevole della sua forza erotica – con l’ormai storico look calze nylon, maglietta attillata e shorts – nel film l’attrice interpreta Silvana, all’apparenza forte, tenace ma solare e dall’animo buono. La giovane però nasconde una malsana attrazione per ciò che lei idealizza come lontano dalla miseria in cui vive; per ottenerlo è disposta a farsi corrompere e a fare cose che la sua coscienza, infine, non è in grado di sopportare.
Un successo strepitoso che inaugura in Italia una stagione di attrici tracotanti, definite dalle cronache dell’epoca “maggiorate”. L’attrice diventa una star nel giro di poche ore ma comincia a odiare il proprio corpo. Considerato come segno ingovernabile di una femminilità troppo esplicita, che la iscriveva, di diritto, in un club che comprendeva Gina Lollobrigida, Sophia Loren e Silvana Pampanini.
Il matrimonio con Dino De Laurentiis
Produttore di Riso amaro e nascente tycoon dell’industria cinematografica italiana, De Laurentiis si innamora perdutamente della ragazza. Che sposerà, lei poco più che ventenne, l’anno successivo. Dal matrimonio nascono quattro figli – tre femmine e un maschio, Federico, che perderà la vita a soli 26 anni – e un sodalizio artistico più che trentennale. Che a differenza del connubio Ponti-Loren, vede la Mangano – supportata dalla complicità di Dino – fare di tutto per togliersi quell’aria da popolana sarà e verace.
Privilegiando personaggi drammatici – sarà Edda Ciano in Il processo di Verona di Carlo Lizzani, nel 1963 – e ruoli che le stravolgono l’aspetto fisico. Come il celebre taglio rasato nel film di Martin Ritt Jovanka e le altre. Tutti prodotti dall’inseparabile Dino. Che l’attrice chiama in pubblico “De Laurentiis”, alimentando le voci che da sempre la vogliono innamorata non tanto dell’uomo ma quanto della gabbia dorata nella quale trascorreva i suoi giorni lontano dal set.
Musa di Pasolini e Visconti
Ma Silvana non amava proprio fare l’attrice. Un senso di perenne inadeguatezza l’ha sempre accompagnata, misto al rifiuto del suo aspetto fisico. Che la porterà a perdere quelle forme che tanto avevano stregato gli italiani, in un’epoca in cui la parola anoressia ancora non esisteva. Così, nel corso degli anni, Silvana abbandonò anche il cinema popolare – e una breve parentesi a Hollywood – per cercare sicurezze fra le braccia artistiche di due maestri: Pier Paolo Pasolini e Luchino Visconti.
Per quest’ultimo l’attrice interpreterà – con un’eleganza mai vista prima – ruoli contraddittori e antipatici, come in Gruppo di famiglia in un interno. O in capolavori come Morte a Venezia, dove la sua immagine gelida e proustiana è enfatizzata dagli abiti splendidi di Piero Tosi.
Per Pasolini invece, l’attrice si trasformerà nella moglie borghese e ninfomane nello scandaloso Teorema del 1968 – e poi nella mitologica Giocasta in Edipo Re –. Lo scrittore-regista è anche quello che riesce a riassumere meglio il suo enigma: «C’è sempre un vetro fra lei e la vita reale. Che si rompe solo quando recita». Una descrizione quanto mai accurata della sua ambiguità. E del suo male di vivere, a cui si abbandona definitivamente dopo la scomparsa dell’unico figlio maschio nel 1981. Muore infatti poco dopo, a soli 59 anni, nel 1989. Lasciando un’eredità strepitosa di film, allure, stile e la qualità più preziosa di una “diva” anche riluttante, anche e soprattutto malinconica come lei: il mistero della sua vera natura. Tuttora irrisolto.
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