Rapporto padre figlio: 5 consigli per gestire al meglio i conflitti

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Caro papà lettore, puoi girarci intorno quanto vuoi ma sai già benissimo come andrà a finire. Tu vorresti che quella piccola creatura ti ubbidisse, e gli dici con la giusta dose di fermezza e dolcezza che: “No tesoro, quel cioccolatino non lo possiamo comprare oggi”; ma lui non sentirà ragione. Al che insisterai per tenere il ruolo e in due secondi ti troverai nel bel mezzo di una valle di lacrime nel corridoio centrale del supermercato di turno.

Potresti allora iniziare a pensare che tuo figlio – quello vero – possa essere stato scambiato alla nascita, e ti sia arrivato invece questo tiranno in dimensioni tascabili che sembra intenzionato a rimettere in scena “l’esorcista” anche quando sei in mezzo a una folla di sconosciuti. Ma no, ha proprio il tuo DNA. Sì, li ami. Eppure i bambini possono farti impazzire. 

Oppure, forse, è che stiamo solo lavorando su un paradigma sbagliato noi padri?

Lascia che ti spieghi con questo esempio fantasioso…

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Sono con il mio amico immaginario Jeanne Paul. JP parla solo Francese. 

Io: Oh JP, mettiamo in ordine la cameretta per favore, guarda che casino, dai…

JP: Je ne comprend pas

Io: Allora? Ci muoviamo? Quante volte te lo devo ripetere??

JP: Mais je ne comprend rien de ce que tu est en train de dir….

Io: Smettila di sfidare la mia volontà JP! In castigo!

JP: Ce n’est pas juste! Je n’est fait rien de rien!

Amici, detto tra noi, chi è in questo caso l’idiota? 

Io. Perché? Perché mi sto comportando come se JP volesse ostinatamente resistermi quando in realtà semplicemente non possiede le abilità richieste per conformarsi ai miei “ordini”. Potrei urlare di più, o aumentare le minacce. O iniziare a implorarlo in ginocchio… ma tutto questo non gli insegnerà mai un’altra lingua!

Ora se ti chiedessi: “Secondo te, i bambini hanno le stesse capacità degli adulti”? rideresti e mi diresti: “Ovvio che no”! Eppure spesso trattiamo i bambini – specialmente durante i momenti difficili – come se avessero le nostre stesse capacità e autocontrollo. 

Non funziona così. E questo non significa che allora devi permettergli di fare tutto quello che vogliono, ma che devi pensare un po’ meno al ruolo del padre come un guardia carceraria e un po’ di più come se fosse un mentore. 

Bella storia! Ma da dove si parte? Francamente, non ne ho idea. Ma fortunatamente Ross Greene, autore del libro The Explosive Child, è più sul pezzo di me, vediamo 5 dei suoi suggerimenti a questo proposito.

 

1. Capacità VS Volontà

Partiamo dal presupposto che a tuo figlio manchino le capacità, e non il desiderio di rispettare la tua volontà. Puoi gridare di più, puoi minacciarlo, puoi intimorirlo: è difficile che lui possa fare qualcosa se non ne è capace. O magari è capace di fare quello che gli chiedi, ma in una situazione di agitazione che tu gli stai inducendo con il tuo rimprovero, agirà in modo poco razionale.

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Da questo punto di vista, le ricompense e le punizioni non risolvono i problemi: non insegnano infatti al bambino le abilità che gli mancano, ma si limitano ad aumentare il suo livello di frustrazione.

Quindi il primo punto è che davanti all’azione sbagliata di tuo figlio non dovresti pensare al suo cattivo comportamento, ma alle abilità che gli mancano e come implementarle. Se vuoi cioè che smetta di picchiare sua sorella quando si sente frustrato, dovresti insegnargli un modo alternativo per gestire le emozioni quando è frustrato. 

 

2. Gli effetti collaterali dell’inflessibilità

Alcuni di voi diranno: ma il papà deve farsi ubbidire. Ed è vero. Tuttavia occorre approcciarsi all’educazione anche con una certa flessibilità. Prendi nuovamente il caso del bambino che picchia la sorella quando si sente frustrato perché non ha altre modalità per gestire l’emozione: se tu davanti ai suoi problemi emotivi fai il colonnello inflessibile e ti metti a urlargli contro, e lo minacci di non picchiare più sua sorella… getti benzina sul fuoco e aumenti proprio quello stravolgimento emotivo che non sa gestire e che lo ha portato a picchiare la sorella. Il che, darà il via a un circolo vizioso molto pericoloso.

Nessuno sta dicendo che devi cedere e arrenderti. Ma non è da debole fare delle domande invece che aggredire tuo figlio. Non è da debole supporre che forse c’è una ragione legittima per cui il bambino sta lottando, e provare quindi a comprenderla a fondo. 

Magari penserai: ”Ma guarda, Luca, mio figlio vuole solo attenzioni” oppure “É che vuole fare quello che vuole“. Probabilmente c’è del vero, ma in fin dei conti – diciamocelo – queste due frasi sono vere per ogni essere umano su questo pianeta. Me e te inclusi. Nel migliore dei casi abbiamo imparato a gestirle al meglio e smazzarci in autonomia questi bisogni, nel peggiore continuiamo a viverli ma non ce ne rendiamo conto.

Bene, chiarita l’importanza della fase di comprensione e insegnamento delle abilità mancanti alla risoluzione dei problemi di tuo figlio, vediamo con i prossimi punti come passare alla pratica. Da dove si parte?


 

3. Empatia

Cari papà, si parte sempre dall’empatia. Dalla tua capacità di leggere le sue emozioni e pensieri. Una buona formula per tradurre il tutto all’interno del dialogo potrebbe essere quindi qualcosa che ci aiuti a comprendere le sue preoccupazioni e prospettive sul problema non risolto:  “Ho notato che …” + (problema/meni tua sorella/hai avuto difficoltà quando è stata l’ora di fare i compiti) + “Che succede?” 

Mi raccomando: calmo e gentile. Non è un interrogatorio. E anche se il bambino risponderà con il classico “Non so” o il silenzio, va bene lo stesso: probabilmente non lo sa nemmeno lui. Probabilmente non ci ha pensato molto. D’altra parte i bambini non sono noti per meditare sulle difficoltà della vita e – diamine – non sanno perché fanno la metà delle cose che fanno. Va bene.

Sii paziente. Fai domande. Incoraggiali a parlare. E prova assieme a lui a mettere un po’ di ordine tra quello che è successo. Mi raccomando in tutto questo concentrati sull’ascolto e non sul parlare tu: non affrettarti ad esprimere il tuo punto di vista o a cercare di risolvere il problema al posto di tuo figlio.

 

4. Definisci il problema

Quarto punto: entrati in uno stato empatico dobbiamo definire il problema. Fai quindi un recap di quanto emerso, senza saltare alle conclusioni o alle soluzioni. In questo recap includi le preoccupazioni che sono emerse nel bambino, e dopo inserisci anche le tue.

“É successo X e Y, hai fatto presente che ti preoccupa Z e io sono pensieroso per W”

Rimani calmo e gentile, non accusare. E vai al quinto e ultimo prossimo punto, che è quello dell’invito.

 

5. L’invito

La fase dell’invito rappresenta il tempo delle soluzioni. Ma no, non puoi suggerirne una tu. L’ideale è che la soluzione arrivi dal bambino stesso. Una buona frase può essere: ”Mi chiedo se c’è un modo in cui possiamo risolvere questa cosa… hai qualche idea?” 

Far fare loro il primo passo nel suggerire la soluzione non solo migliora la loro empatia e i muscoli del problem solving, ma fa anche capire loro che sei interessato alle loro idee. È un momento prezioso anche perché insegna loro come collaborare – invece che imporre. 

 

Amici lo so, niente è mai così semplice con i bambini. E magari le loro soluzioni non saranno sempre realistiche, o reciprocamente soddisfacenti per loro e per voi. E allora il genitore dovrà andare incontro al bambino, e aiutarlo a trovare altre idee più realistiche e migliori per entrambe le parti. Non aspettiamoci miracoli, la crescita ha bisogno di tempo, tentativi ed errori.

 

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