“Non vi è arte la dove non vi è stile” Oscar Wilde

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Oscar Wilde: l’uomo e l’artista a 117 anni dalla sua morte

Il 30 novembre 1900 moriva Oscar Wilde. Genio letterario e figura emblematica del decadentismo di fine Ottocento, noto per la sua eccentricità, Wilde venne duramente condannato per la sua omosessualità e finì la sua vita in completa povertà e solitudine. “Volete sapere qual è stato il grande dramma della mia vita? È che ho messo il mio genio nella mia vita”

Quella di Oscar Wilde è un’esperienza letteraria a metà fra genio e dissoluzione, che ha sempre reso difficile stabilire un confine netto fra l’arte sublime di alcune sue opere e la miseria delle circostanze in cui vengono composte. Il suo unico romanzo, “Il ritratto di Dorian Gray” (1891) diviene da subito uno degli esempi più alti dell’estetismo letterario inglese: una storia di decadenza morale nella quale l’autore non risparmia alcun particolare, una forte posizione contro la degradazione dell’individuo che però non eviterà a Wilde critiche, processi e accuse d’immoralità. Wilde fu anche ottimo scrittore di teatro pur non avendo una preparazione drammaturgica alle spalle: celebri restano “Il ventaglio di Lady Windermere”, “L’importanza di chiamarsi Ernesto” e “Salomè”, ultimo capolavoro che venne censurato in Inghilterra e rappresentato a Parigi nel 1896, mentre l’autore si trovava in carcere. Lo spirito acuto e l’irriverenza di certe sue intuizioni letterarie hanno reso Oscar Wilde simbolo indiscusso di quell’estetismo esasperato e decadente di fine secolo, che non smette di affascinare nemmeno dopo un secolo.


 

Wilde aveva ereditato dalla madre l’abitudine di nascondere la sua vera età, e in occasione dei compleanni era solito vestirsi di nero, affermando di sentirsi in lutto per la morte di un altro dei suoi anni. Si racconta che in un periodo particolarmente creativo della sua vita amasse vestire con lunghe ed elaborate parrucche, e decorare gli abiti con fiori e piume finte. Questa, e tante altre eccentricità, hanno contribuito a creare un’immagine che vive ancora oggi: quella di un’intellettuale arguto, profondo, ferocemente ironico su quella stessa società che prima lo ammira e poi lo condanna, che sceglie di vivere e raccontare il suo tempo come uno dei personaggi dei suoi libri.

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Oscar Wilde nel 1884

“Diventò un arbitro d’eleganze nella metropoli e la sua rendita annua, provento dei suoi scritti, raggiunse quasi il mezzo milione di franchi.Sparse il suo oro fra una sequela di amici indegni. Ogni mattina acquistò due fiori costosi, uno per sé, l’altro per il suo cocchiere; e persino il giorno del suo processo clamoroso si fece condurre al tribunale nella sua carrozza a due cavalli col cocchiere vestito di gala e con lo staffiere incipriato”: lo ricorderà così un’altro celebre genio letterario irlandese, James Joyce che, in un articolo pubblicato in italiano sul giornale triestino “Il Piccolo della Sera”, a dieci anni dalla sua scomparsa.

Il centro motore dell’arte di Wilde è il peccato. Mise tutte le sue qualità caratteristiche, l’arguzia, l’impulso generoso, l’intelletto asessuale al servizio di una teoria del bello che doveva, secondo lui, riportare l’evo d’oro e la gioia della gioventù del mondo. Ma in fondo in fondo se qualche verità si stacca dalle sue interpretazioni soggettive di Aristotele, dal suo pensiero irrequieto che procede per sofismi e non per sillogismi, dalle sue assimilazioni di altre nature, aliene dalla sua, come quelle del delinquente e dell’umile, è questa verità inerente nell’anima del cattolicesimo: che l’uomo non può arrivare al cuor divino se non attraverso quel senso di separazione e di perdita che si chiama peccato.

Il De Profundis, dal buio delle prigioni

Oscar Wilde e Lord Alfred Douglas nel 1893

Fin da giovanissimo sulla persona di Oscar Wilde si concentrano voci e maldicenze circa la sua omosessualità,rese più insistenti anche dall’abitudine di salutare con un bacio sulle labbra i suoi più stretti amici e dalle stravaganze nel modo di vestire e di acconciarsi. All’apice della carriera e della notorietà, Wilde fu protagonista di uno dei processi più chiacchierati del secolo: imputato per sodomia, uno scandalo senza pari nell’Inghilterra dell’epoca, e condannato alla prigione e a due anni di lavori forzati, ne uscirà psicologicamente e socialmente rovinato, tanto che sceglierà di passare i suoi ultimi anni a Parigi, dove poi morirà il 30 novembre del 1900.

Ma proprio in prigione egli scriverà una delle sue opere più belle, intima e senza maschere: una lunga lettera a Lord Alfred Douglas, il giovane amato da Wilde e a causa del quale era finito in catene, pubblicata con il titolo di “De Profundis”. Pagine in cui si riconosce lo scrittore nella sua semplicità di uomo, alle prese con i fantasmi del proprio passato:

Noi che viviamo in questo carcere, nella cui vita non esistono fatti ma dolore, dobbiamo misurare il tempo con i palpiti della sofferenza, e il ricordo dei momenti amari. Non abbiamo altro a cui pensare. La sofferenza è il nostro modo d’esistere, poiché è l’unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita; il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia, come la testimonianza della nostra identità.

articolo a cura di
Loris Old
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