Ogni tre giorni Sveva, una signora di 57 anni che vive a Prato, va dal panettiere all’angolo, quello di sempre, compra un filone di pane senza sale. Poi, quando torna a casa, lo ricuoce nel proprio forno, 5 minuti a 180 gradi: «Ho paura che contenga il coronavirus» dice. Claudio invece non esce mai, tranne che per fare la spesa, una volta alla settimana: «Appena rientro butto in acqua bollente tutto quello che non è confezionato: l’insalata, le verdure, e anche le arance». Tommaso affronta le corsie dell’iper come se stesse per entrare in sala operatoria: indossa la mascherina e un giaccone che poi lascerà sul balcone per alcuni giorni. Afferra tutti i prodotti con i guanti, li passa sul lettore di codice a barre e poi li mette direttamente nelle buste che si è portato da casa: «Così non devo usare il carrello: cerco di limitare i contatti», ergo il contagio.
Il cibo porta il virus?
Tutti matti? Niente affatto. «Questi esempi – spiega Pietro Meloni, docente di antropologia del consumo all’Università di Siena – ci dimostrano che oggi ci fidiamo meno di quello che compriamo, anche se continuiamo a rifornirci negli stessi negozi». Pur non raggiungendo necessariamente livelli patologici, «è indubbio che il coronavirus abbia significativamente trasformato e reso più insicuro e fragile il nostro rapporto con il cibo» aggiunge l’antropologo.
Trionfa il fai da te
Le conseguenze più evidenti sono queste: da una parte si registra una rincorsa all’acquisto dei prodotti confezionati, nella convinzione che solo l’ambiente sterile della busta garantisca che l’alimento non sia venuto a contatto con agenti patogeni, dall’altra si scopre (o riscopre) il piacere di autoprodursi il cibo: pane, pasta, focacce e torte specialmente. Tanto che i cubetti di lievito di birra e la farina sono ormai il Sacro Graal del carrello: introvabili, quasi più delle mascherine e del gel disinfettante per le mani.
Tutti re delle torte e dell’orto
Come mai, in questi giorni, tutti (o quasi) ci siamo trasformati in chef o boulanger? Per l’antropologo dietro a questa scelta potrebbero esserci tante ragioni. «La prima, la più semplice è questa: oggi abbiamo molte più ore a disposizione e quindi possiamo dedicarci alle attività e agli hobby che attivano piacere e benessere. Mettere le mani in pasta è indubbiamente una di queste».
L’altra motivazione di questo ritorno alla tradizione è la diffusa preoccupazione sulla sicurezza dei prodotti che acquistiamo e consumiamo. Perciò, spiega Meloni, «per alcuni, l’autoproduzione del cibo e la scelta di alimentarsi solo della frutta e della verdura coltivate nel proprio orto o sul proprio balcone rappresenta un modo per arginare una delle grandi paure di questo momento: quella che il virus possa intrufolarsi in casa, sulle tavole, attraverso gli alimenti». Eppure, lo ha chiarito l’Efsa, l’autorità europea per la sicurezza alimentare, «attualmente non ci sono prove che il cibo sia fonte o veicolo di trasmissione probabile del virus».
Ti nutro perché ti amo
C’è poi una terza ragione che ci spinge a metterci ai fornelli, ed è di natura culturale. Come sottolinea ancora Meloni, che ha dedicato a questo tema il libro Antropologia dell’alimentazione (Carocci, 2019), insieme a Alexander Koensler, «ogni aspetto della nostra alimentazione e del rapporto che intratteniamo con il cibo è condizionato da questioni che appartengono alla sfera culturale: lo sono i nostri gusti, la scelta che facciamo di mangiare alcuni alimenti e di scartarne altri, di sederci a tavola in un modo piuttosto che in un altro, e lo è anche il significato che gli attribuiamo». Nello specifico, aggiunge l’antropologo, «in Italia, così come negli altri Paesi in cui il problema della fame riguarda un gruppo ristretto di individui, il cibo non garantisce solo la sopravvivenza, ma ha anche un significato simbolico, legato alla vita e alla cura, persino all’amore». Perciò, in questi giorni così extra-ordinari, in cui le famiglie si ritrovano improvvisamente a casa in una intimità prolungata e inconsueta, portare a tavola cibi prodotti con le proprie mani, a cui si è dedicato tempo ed energia, potrebbe significare “Ti voglio bene” , “Ti penso”, “Mi prendo cura di te”».
Piatti a favore di telecamera
Ma se ci stiamo improvvisando tutti cuochi, panettieri e pasticceri, un peso ce l’ha anche la pressione esercitata da tv e reti sociali. Da molto prima che l’epidemia trasformasse le nostre giornate, i social media, le riviste e i programmi tv dedicati alla gastronomia e alla cucina hanno provato a farci credere (talvolta con un certo successo) che fare il pane in casa fosse una scelta salutare, economica ed etica, ma anche, forse soprattutto, cool, molto cool, di tendenza. Per avere la conferma di quanto questo messaggio abbia fatto presa basta fare un giro su Facebook e Instagram in questi giorni.
L’articolo #iorestoacasa e lievito: perché fare il pane ci fa sentire più sicuri sembra essere il primo su iO Donna.