Io, mai ammalato e mai guarito

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Non cercate il mio nome nella tabella delle 18.01: non ci sono, e (spero) non ci sarò mai. Il prof. Borrelli, non parlerà di me. Io, per il prof. Borrelli, semplicemente non esisto perché io, come chissà quanti altri in questo paese (forse un giorno ce lo dirà il modello statistico di chissà quale istituto di chissà quale nazione) non sono mai stato “tamponato”.

Quando arriva la febbre, leggera, devo stare a casa, così dice il medico, che recita il mantra che gli hanno detto di recitare: passerà, hashtag andrà tutto bene, se la febbre non sale, se respira (se respira!!!!!) stia a casa, prenda la tachipirina e mi aggiorni. E in effetti passa, anche se quelli sono i giorni di Bergamo, dei camion con le salme, dello strazio che ha falciato la generazione che ci ha messo al mondo, e presto mi accorgo che questo maledetto microbo non fa male solo ai polmoni, o ai trombi come qualcuno ora dice, ma alla testa: è lì che ti entra, è lì che ti uccide, è lì che ti ricorda che un microbo può fare molto più male di una trave d’acciaio che ti piombi addosso mentre cammini.

Dicono che sia angoscia, no non è paura, la paura è di ciò che conosci, l’angoscia di ciò che ti è ignoto. Grazie del pensiero, di questa distinzione sentivo il bisogno, ma non avete risolto il mio problema.

Io però un salto in ospedale lo faccio, ho bisogno di sapere se i miei polmoni ci sono ancora o se sono un pacchetto di sigarette accartocciato, entro in un pronto soccorso dove una giovane medico mi accoglie dicendomi che il tampone non me lo faranno. Quando mi dimettono, sul foglio c’è scritto Covid-19 (e come fanno a dirlo, senza tampone?), isolamento a casa, tra 14 gg la ricontatteremo.

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Perché mai dovrebbero farmi dei tamponi alla fine, se non lo hanno fatto all’inizio? E infatti quando a fine marzo chiamo l’ospedale, dopo aver sentito in sequenza l’opera omnia di Mozart e di Beethoven, ai primi cenni del notturno di Chopin mi dicono quello che tutti dicono ormai da molto tempo: noi non sappiamo nulla, non abbiamo ricevuto alcuna indicazione.

Allora resto a casa, cosa devo fare? Resto a casa a pensare a quanto sono fortunato, per essere ancora qui, per aver ancora il piacere di sentire che l’aria, dopo essere andata giù, velocemente  e bene torna su. Resto a casa con il mio saturimetro, protesi ormai del mio dito medio che mi impedisce se non altro di fare brutti gesti, che mi dice che va bene, siamo a 99, guarda adesso anche 100.

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Resto a casa,  e nel frattempo ascolto, ascolto coloro che finalmente hanno la forza di dire che non hanno capito assolutamente nulla, e cerco di evitare quelle interviste in cui si dice che forse non finisce qui, che forse se ti fa un poco male l’orecchio potresti morire tra poco, perché forse il Covid prende anche l’orecchio. Ahia, mi sembra di sentire male all’orecchio…

Spengo la televisione, sfoglio un giornale e leggo quello che so, e cioè che quello che il covid fa ai nostri corpi è e sarà poca cosa rispetto a quello che si appresta a fare ai nostri portafogli e soprattutto alle nostre menti.  Lavoro, devo lavorare, voglio lavorare, da casa si può anche lavorare discretamente bene nel 2020, mi chiedo cosa sarebbe successo 30 anni fa, senza internet, senza queste importanti possibilità di comunicazione, ma vorrei che qualcuno mi desse la patente. Quella di guarito, o magari, non vorrei, quella di malato.

Io vorrei uscire di casa, quando si potrà, penso di essermelo meritato, e sempre ovviamente che sia guarito. Vorrei uscire di casa perché pensavo di meritare un trattamento migliore. No, non perché sono uno delle poche centinaia (che vergogna!!!) di italiani che dichiara un reddito elevato, ma solo perché pensavo che quello che ho dato negli anni potesse aiutare me e i miei connazionali ad avere qualcosa di più, e qualcosa di meglio: ad esempio, un tampone all’inizio di marzo, e magari due alla fine.


Andrea Cioccarelli

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