Coronavirus: «La scuola a distanza? La sfida più grande per noi prof»

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«La didattica a distanza è un banco di prova: la scuola ha dei buchi nella rete digitale e i tutti i prof stanno cercando di ricucirli. Un lavoro immane, ma ce la stiamo mettendo tutta». Cristina Dell’Acqua, vicepreside del Collegio San Carlo di Milano e docente di latino e greco alle superiori, si sta mettendo in gioco ogni mattina, come i suoi colleghi. In questi giorni così difficili, gli insegnanti si stanno reinventando, con tecnologie che spesso non conoscevano, e nuovi approcci didattici. Non è facile tener viva l’attenzione degli studenti in pigiama, soli nelle loro camerette. Ma ci provano, perché non tutto vada perduto.

Tenere unita la squadra

«Il tuo compito di prof non è solo portare avanti l’anno scolastico e il programma, ma entrare nelle case dei ragazzi, in un momento così destabilizzante. E soprattutto, devi cercare i tutti i modi di tenere unita la squadra. Nell’interesse in particolare dei più piccoli, che sono frastornati, si sentono isolati». L’aula virtuale non è certo come quella reale: «Ne vedi pochi per volta, mai tutti insieme. E allora devi darti da fare per coinvolgerli, sollecitarli. Dai un esercizio, un tempo fissato e correggi. Alterni momenti di leggerezza, come a scuola. La spiegazione didattica non cambia tanto, anche in aula cerco di essere interattiva, non sto mai seduta in cattedra, uso powerpoint e filmati. Quel che cambia è la relazione. Ma è la sfida più bella. Gli insegnanti possono far tanto per la tenuta sociale, abbiamo una responsabilità più forte».

Come appassionata di classici (ha anche scritto un libro Una Spa per l’anima. Come prendersi cura della vita con i classici greci e latini, Mondadori) Cristina Dell’Acqua pensa che da lì possa arrivare gran conforto, e lo suggerisce a tutti, anche in chi non li ha mai studiati: «In un’intervista di ieri, il cardinale Ravasi ricordava come i greci definissero le biblioteche le cliniche dell’anima. Una riflessione che vorrei portare ai miei studenti».

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Ma quando tutto passerà, che cosa resterà ai ragazzi? «Non si potrà dimenticare, devono restare delle tracce. Voglio che scrivano un diario, anche breve, che fissino sulla carta quel che succede in modo che un giorno possano raccontarlo ai loro figli, come i nostri nonni hanno raccontato a noi la guerra».

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