Il colore viola
, il film che avrebbe dovuto fare di Steven Spielberg un autore serio esce nel 1985. Lo potete rivedere – per chissà quale milionesima volta – stasera alle 21 su Iris. Esce a metà anni Ottanta, si diceva, e dopo un’attesa abbastanza spasmodica. Perché si tratta appunto della prima opera “impegnata” del regista prodigio di Lo squalo ed E.T., e perché lo è portando sul grande schermo il romanzo amatissimo di Alice Walker. Un best seller plurititolato – premio Pulitzer e National Book Award – che per dimensioni di consenso sembra un altro Via col Vento. Con le star che fanno a gara per includerlo nelle liste di fine anno, i dibattiti in televisione, le speculazioni su chi interpreterà Celie e Sofia nella trasposizione di Spielberg.
Saranno rispettivamente Whoopi Goldberg e Oprah Winfrey, entrambe alla prima prova da attrice. I loro volti, assieme a Danny Glover, Akosua Busia e Margaret Avery, sono i due poli dell’epopea di una povera derelitta nemmeno baciata da un po’ di bellezza, Celie. Che separata dalla sorella in giovane età per ripicca, si trova a combattere su due fronti: contro i bianchi e contro un nemico interno, il patriarcato nero. Taciturna e perennemente umiliata, oltre che essere bruttarella, dal marito a cui è stata consegnata come un pacco postale, Celie cerca di cavarsela come può. Aiuta come può chi ha bisogno, Sofia per esempio, quando uscita dal carcere in cui è stata rinchiusa per aver aggradito il sindaco del villaggio è costretta a fare la serva a sua moglie, per tutta la vita.
Un melodramma strappalacrime
Celia aiuta tutti. E poi qualcuno aiuta lei. La fa sorridere e le scova le lettere della sorella cacciata. Da cui scopre molte cose importanti, e recupera forza sufficiente per scappare. Da questo punto in poi, Il colore viola, che già ha provocato diverse lacrime, diventa una lotta persa contro altri riversamenti di liquido sulle guance. Per come la vicenda si chiude, e rimargini in parte le ferite e gli anni di disperazione attraverso ritorno che hanno la meraviglia di un incontro con i trapassati. È fatta, si dice, il mago del box office ha realizzato il capolavoro. Piovono le nomination agli Oscar, undici, e gli incassi sono molto buoni. Non straordinari come è sempre nel caso di Steven ma per un melodramma lunghissimo, oltre due ore, oltre le aspettative.
La critica invece non è benevola. E se oggi il film ha acquisito una sua relativa classicità, in quel fatidico 1985 vengono messe in luce le differenze con il libro. Laddove uno spettacolarizza, l’altro è tutta riduzione; laddove uno varia gli episodi più laceranti facendo leva sulla commedia, l’altro non ha pietà. Cioè a Steven viene rimproverato di aver coperto di zucchero i fatti, e reso la storia di Celie una favola di ottimismo in cui gli episodi brutali sono coreografati a favore di camera. Estremizzati nella gestualità – moltissimi i momenti in cui i personaggi puntano il dito, il coltello, invocando il karma e il cielo – fino a quello successivo. In un contrappunto che né scende verso il marcio più bieco ma nemmeno sale verso vertici di spiritualismo.
A mezz’aria. Il che da a Il colore viola un andamento pressoché uniforme, e la drammaticità di una soap opera. Che è principalmente il problema del materiale di Alice Walker, e anche di come Spielberg lo organizza. Ma il regista ha mano ferma, sufficiente a non far precipitare il tutto nel disastro. E a infondere al dramma un suo calore speciale, pure nella consapevolezza “giovanile” – confessata poi negli anni – di aver controllato troppo la materia. Che alla fine sa appunto di bel compitino. Con belle musiche – Quincy Jones – e bellissimi controluce. Nessuno tocchi Il colore viola però. O i polpettoni fatti dai grandi professionisti. In questo periodo, la storia di un personaggio che lotta, non molla, poi si abbatte, poi le prende, sopravvive e infine ha la giusta ricompensa, è – presuntuosamente – un po’ anche la nostra storia.
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