La presenza di coniugi e figli è un antidoto alla malinconia, ma spartirsi
tempi e spazi è un’impresa nei piccoli appartamenti di città! Chi abita da sola può concedersi grandi libertà e piccoli lussi, ma deve darsi delle regole. Ecco due testimonianze a confronto
La single: «Ho deciso di trattarmi da regina»
Testimonianza di Paola Vazquez, grafica, single
La grande paura all’inizio è stata: basterò a me stessa? Mai avrei detto che dopo un mese e mezzo di clausura, due sole uscite a dieci metri dal portone di casa, mi sarei ritrovata serena, persino soddisfatta.
Perché, intanto, ho imparato a non rinviare, a concedermi piccoli lussi casalinghi: ho tirato fuori le lenzuola di lino ricamate a mano – sensazione stupenda, che spreco aspettare tanto e pazienza quando andranno stirate. Ho aperto una bottiglia di champagne per la pizza e apparecchiato la tavola come dovessi avere ospiti di riguardo, come dovessi fotografarla, con le posate d’argento, il servizio di porcellana giapponese dono per i quarant’anni, la cristalleria di famiglia ormai decimata, ma perfetta per un solo commensale: io. Diciamo che mi sono trattata da principessa, con un modello aspirazionale inarrivabile e insuperabile: l’Elisabetta II di The Crown. La promessa è di concedermi gratificazioni simili anche a quarantena conclusa.
È stato bello scoprirmi autarchica. Aprire la dispensa e trovare veramente di tutto, spezie, farine, riso, conserve per sperimentare nei fine settimana manicaretti da far poi consegnare in taxi agli amici. L’hummus con i ceci neri della Murgia, la torta di carote con la melassa, la pastiera di Carnaroli… Condivisi per amore e per il timore nero, lo confesso, di sconfinare nella taglia 46. Bello ritrovare, coraggiosamente smontando la libreria, un libro molto amato, L’inverno del nostro scontento, e rileggerlo la sera prima di addormentarmi. Bello raccogliere la sfida di produrre mascherine d’emergenza, un’edizione limitata un po’ modaiola, utilizzando tessuti d’arredamento ultra resistenti doppiati (all’interno) con il filtro della cappa! Impegno solenne: manterrò costante questo livello di approvvigionamento.
Ma la vera chiave della resistenza è stata l’organizzazione della giornata, che lo smart working da solo non poteva garantirmi. Ho impostato, dopo qualche incertezza, un’agenda giusta per me: ore 7 meditazione al risveglio, dieci minuti di pilates, colazione degna di una pasticceria. Ore 9 lavoro, poi pranzo light, ancora lavoro e pausa tè al posto della pausa caffè, alla scrivania fino alle 19. Quindi dieci minuti di poltrona shiatsu, relax in vasca, cena e qualche chilometro in cyclette guardando alla tv la serie preferita. L’effetto collaterale di tutto ciò è un picco nel livello di autostima. Andrà stabilizzata.
Nella solitudine forzata, ho rivalutato le videochiamate: ti impongono di essere sempre in ordine, tinta compresa. Di portarti, in qualche modo, rispetto. Certo, in alcuni momenti non sono bastate a colmare il vuoto di presenza delle persone più care. Allora ho preso a raccontare impressioni e propositi alla collezione di marionette che mi porto dietro da quando ero bambina. Un monologo? Non sono sicura. Rappresentano il mio legame con il passato, sono la piattaforma da cui rituffarmi nel futuro.
La famiglia: «Il problema della giusta distanza»
Testimonianza di Elisa Messina, giornalista.
Da settimane circola tra i social un meme simpaticamente sessista: “Mogli in casa, 1. Percepite, 4”. Diciamo che l’equazione è applicabile anche a mariti/conviventi e figli/figlie. Per una famiglia che lavora, studia, mangia insieme, 24 ore su 24, qualche cortocircuito va messo in conto dopo un mese e mezzo di lockdown. Siamo cavie (e scienziati) di un esperimento che comunque ci ha insegnato e ci sta insegnando molto. Recuperando la definizione di Tolstoj, «tutte le famiglie felici si somigliano, ma ogni famiglia infelice, lo è a modo suo», si potrebbe aggiungere che ogni famiglia “normale” ha le sue quote di felicità e d’infelicità. Nel suo sforzo quotidiano di costruire la propria normalità. Anche in tempi eccezionali.
Solitamente la nostra famiglia (normale) è composta da quattro persone, due genitori di mezza età e due adolescenti, Anna e Silvia, rispettivamente al primo anno di università e quarta superiore. Ma Silvia è in Canada dal primo febbraio come studente international. Ora è in lockdown pure lei. Ma con il vantaggio di abitare, assieme alla sua host family, in una villetta su tre piani con grande giardino (l’unico lusso del nostro appartamento milanese sono due bagni). Ora la faccio facile. Ma quando l’epidemia è esplosa il dubbio se farla tornare a casa ci assaliva spesso. Adesso non più: tra le cose che abbiamo imparato c’è la consapevolezza che dobbiamo vivere giorno per giorno e rinunciare ad avere il controllo su tutto.
Così ora, anche per lei scuola a distanza, tanto sciroppo d’acero e tante videochiamate con noi. Per condividere, con un oceano di mezzo, questa strana normalità.
Stefania Andreoli, psicoterapeuta capace di grande saggezza in piccole frasi, dice che le parole chiave con i figli sono due: vicinanza (con i piccoli) e distanza (con i grandi). Nessuna delle due è scontata. Ora più che mai. La mia collega Sara, che ha un figlio in seconda elementare, mi racconta come si destreggia ogni giorno tra lavoro, gioco, letture e aiuto nei compiti: un bambino non lo piazzi davanti al computer con la maestra che parla e parla… Non funziona così.
Sospiro di sollievo: con le figlie grandi il bisogno fisico di vicinanza è superato. Il punto, semmai, è rispettare la distanza (e recuperare la vicinanza solo se richiesta).
Con Silvia ci aiuta la geografia.
Con Anna, temporaneamente figlia unica, ho imparato che “Vado in camera” is the new “Io esco”. È il suo spazio. Quindi, se sto per chiederle qualcosa prima busso e aspetto “avanti”. In fondo, quando usciva, di giorno o di sera, mica le telefonavo per sapere cosa mangiare il giorno dopo o per raccontarle qualcosa appena visto in tv…
Sui lavori domestici, mio marito riesce ad essere spiazzante: «Io oggi ho fatto la lavatrice e l’asciugatrice». E lo dice con una tale convinzione che finisci per credere che sia davvero una faticaccia. Comunque, senza pretese di perfezione, i compiti di pulizia e ordinaria manutenzione sono stati equamente distribuiti.
Io non ho ancora imparato a lucidare bene il parquet. Ma è una frustrazione che mi sono promessa di vincere.
Nell’ansia creativa di riempire di senso la giornata Anna si è dedicata a: yoga, jogging casalingo, cucina dietetica, pasticceria (non dietetica), bricolage e design digitale. Più o meno in quest’ordine e con più o meno costanza.
Egoisticamente, ammetto, il suo attivismo in cucina è stato prezioso, visto che lavoriamo tutto il giorno… E poi è brava. Io non ho imparato a fare la pizza, ma lei sì, e pure il lievito di birra. Creare insieme è stato bello: la soddisfazione più grande ce l’hanno data i ravioli cinesi realizzati secondo la ricetta di un amico di Taiwan. Ci sono volute ore e una decina di ravioli buttati, ma poi… Ma non è stata l’unica impresa di successo. Dopo la tinta ai capelli (perfetta) per entrambe Anna ha alzato la posta: «Se vuoi, te li taglio, anche». Ci devo pensare.
Il nostro questionario sul futuro
Come ci ha cambiato la quarantena da coronavirus? Cosa portiamo via da questa esperienza che ci ha toccato nel profondo? Abbiamo scoperto risorse che non pensavamo di avere, siamo cresciuti, ci siamo sentiti soli. Lo chiediamo a voi. Cosa avete imparato e cose volete per il futuro che verrà?
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