Hong-hu: «Mi sento una geisha ma sul set imbraccio il mitra»

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Nella lingua giapponese, Hong-hu è il nome di un fiore che si apre di notte con la corolla blu e gialla. Ma è anche il nome di una giovane donna italo-giapponese sospesa tra due mondi, Oriente e Occidente, tra canto e recitazione, tra fede e sensualità. Hong-hu Ada ha recitato in Spectre-007 di Sam Mendes e in altri 19 film, da Abel Ferrara a Pupi Avati, e a teatro col grande Peter Brook. Ha pubblicato 8 cd e cantato nella colonna sonora degli ultimi due capitoli di L’era glaciale. Si è laureata sia in Scienze politiche sia, nel suo paese d’origine, come geisha.

Nella sua vita tocca gli estremi: ha recitato in Squadra antimafia imbracciando armi, e parla degli studi sull’arte di disporre i fiori recisi, Ikebana, che sono ritenuti importanti per diventare una ragazza giapponese attraente, colta e raffinata. Nel ’600 le geishe erano cortigiane dedite all’intrattenimento dei nobili. «Mi sento geisha al 100 per cento», dice nel suo perfetto italiano (parla sette lingue). Una geisha col mitra.

Dov’è nata?
A Miami, dove ho vissuto i primi 23 anni della mia vita, da madre italiana e padre giapponese. C’era il contatto con il mare e con l’acqua, che per gli orientali è fondamentale. Ora vivo tra Roma e Londra. Ero una bambina atipica, spesso solitaria. Ho iniziato a studiare canto molto presto perché mia nonna era soprano e cantavamo insieme musica sacra e lirica. Poi mi sono indirizzata verso il gospel e il pop. Da piccola avevo il poster di Whitney Houston in camera, ascoltavo lei e Aretha Franklin.

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Che cosa si studia per diventare geisha?
La parola significa “colei che scrive nel silenzio”. Non vuol dire che non parla, ma che usa un registro linguistico diverso da quello verbale. Geisha è una ragazza che si forma su tre principi: equilibrio, pace e non invidia. È un modus vivendi. C’è l’arte della cucina, con la preparazione di sushi e sashimi. I massaggi shiatsu. E la vestizione del kimono che richiede fino a tre ore e include i nodi all’obi, la cintura tipica dei kimono, che assumono significati diversi: se i nodi sono rivolti verso il basso significa che si è tristi e si sta magari partecipando a un rito funebre; se sono rivolti verso l’alto c’è felicità, un matrimonio, chissà… Infine studi l’Ikebana che è la composizione floreale con treccine, archi, disegni. Con i fiori si parla.

Cioè?
Ogni colore di orchidea rimanda a un sentimento e ha un significato: giallo è l’amicizia, rosa l’affetto, viola l’amore profondo, porpora la passione, bianco l’obbedienza sessuale e l’amore eterno.

Come concilia l’essere geisha e artista, la tradizione e la modernità, la sensualità e la fede?
È una continua lotta, non è facile portare avanti una tradizione millenaria in una società che corre: i miei nemici sono la paura e la velocità. La geisha è il fuoco, l’Occidente mi fa pensare al ghiaccio. La geisha deve combattere per non spegnersi. Quanto a sensualità e fede, devono essere vere tutt’e due, bisogna viverle con verità e autenticità. Io canto pop – il nuovo singolo si intitola The Door of Desires, La porta dei desideri – così come l’Ave Maria di Schubert o Gounod in Vaticano per Papa Francesco. Sono cattolica praticante. Ho sempre detto no a foto nude e a reality, e a volte si paga un prezzo.

Lucy Liu, la celebre attrice di Kill Bill, ci disse d’essere stata discriminata in Usa in quanto cinese.
Mi è capitato un brutto episodio nella vita privata. Ho avuto un grande amore, un giocatore di basket nero della Nba, ci siamo lasciati perché voleva che rimanessi a casa e rinunciassi a essere un’artista. Eravamo in autobus a New Orleans e mi disse che dovevo sedermi dall’altra parte. C’era una fila di seggiolini per i bianchi e una per i neri. Lo guardai come per dirgli, sei matto? Il controllore si avvicinò, mi prese per un braccio e mi fece segno di spostarmi. Questo episodio di razzismo al contrario mi ha segnato. La pelle dell’essere umano è una.

Il cinema com’è entrato nella sua vita?
Devo tutto ad Abel Ferrara che conobbi a Miami per un videoclip. Dopo due mesi mi richiamò in Italia per Mary, dove ebbi un piccolo ruolo accanto a mostri sacri come Forest Whitaker, Marion Cotillard, Matthew Modine, Juliette Binoche. Lo ritrovai in Go Go Tales. Abel è un visionario folle, il copione lo sfiora, ci vola sopra. Poi mi chiamò Pupi Avati, un grande cuore bolognese, per lui recitai in Il papà di Giovanna e Il figlio più piccolo.

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Ha lavorato tanto. Le manca il ruolo della vita.
Vero. Sono concentrata sulle mie scelte, studio troppo. Mi danno sempre ruoli di donne forti e trasgressive, forse per il mio fisico e i lineamenti, mentre sono l’esatto opposto. La grande occasione deve arrivare, è frutto di circostanze favorevoli, di predisposizione mentale altrui, di tante cose. Ho avuto sfortuna in The Wolverine. Contratto già firmato, poi il regista Darren Aronofsky si lascia con Rachel Weisz, va in depressione, rinuncia al film, cambia tutto compresa la sceneggiatura e al mio posto, nel ruolo di Viper, prendono una bionda russa.

In Italia è l’unica attrice italo-giapponese.
Sì, è un Paese che amo ma si fanno troppe chiacchiere al vento, mi vedono come l’oggetto del desiderio. Nel film Spectre-007 sono a capo di una organizzazione criminale orientale. Sogno di diventare Bond Girl.

Canta e recita, in Italia non si accetta tanto…
Vengo dagli Stati Uniti, dove non si fa distinzione tra una sceneggiatura e uno spartito. A volte è difficile far capire la mia versatilità in Italia. Io suono anche il pianoforte e il koto, l’arpa giapponese, che è orizzontale.

Nell’Era glaciale doppia la tigre.
La tigre che avanza a passi morbidi e felpati sulla neve. Mi ci rivedo.

Hong-hu, la ragazza in bilico tra Oriente e Occidente.
Abbiamo tanto parlato di Ikebana. Io mi vedo come un fiore di loto che si appoggia sull’acqua e non ha radici, sospeso tra cielo e terra.

Come sta vivendo questo periodo drammatico?
La pandemia provoca un forte sentimento di smarrimento e angoscia esistenziale in tutti noi, me compresa. Ho paura, sono confusa, arrabbiata. A volte, quando mi sveglio e penso a cosa sta succedendo mi sembra di tuffarmi nel vuoto, ho un senso di impotenza e di fragilità. Vivo da sola e ho scelto di autoisolarmi per proteggerni dal virus e per proteggere gli altri. Adoro cucinare, è una delle poche cose che mi coccola e mi consola un po’. Non preparo il sushi e il sashimi, niente crudo in questo periodo, solo cibi cotti come il ramen, la zuppa tipica giapponese, il salmone al forno e qualche piatto italiano come le fettuccine ai carciofi. Non vedo nessuno e questo mi crea un senso di profonda solitudine, a volte difficile da gestire. Vivo anche nell’attesa, però, l’attesa di vincere questa guerra, l’attesa che ritorni la pace.

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