#andràtuttobene: Alessia Gazzola, il racconto della quarantena di Alice Allevi

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Voglia di raccontare, voglia di dare una mano. Di dare un senso e forse un ordine a questi giorni sospesi, e un aiuto a chi si sta impegnando per gli altri fino allo stremo delle forze. Così è nato il progetto di solidarietà e creatività firmato da 26 scrittori collegati alle case editrici del gruppo GeMS.

Da Gianni Biondillo a Federica Bosco, da Donato Carrisi a Massimo Gramellini, da Jhumpa Lahiri a Clara Sánchez ad Andrea Vitali… 26 sguardi per raccontare, interrogarsi e capire. C’è chi racconta le sue giornate, le routine consolidate, le novità che strappano un sorriso. Chi parla di convivenze forzate, come di distanze dalle persone care che sembrano insormontabili. Altri affidano le riflessioni su questi strani giorni alla voce dei personaggi amatissimi che hanno creato. Legati tutti da un filo di ottimismo e di speranza.

I racconti sono raccolti in un e-book, ANDRÀ TUTTO BENE – Gli scrittori al tempo della quarantena (pubblicato da Garzanti) i cui proventi verranno interamente devoluti all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
Qui di seguito, in anteprima per Io donna, My Sweet Quarantene il racconto di Alessia Gazzola che ha per protagonista Alice Allevi, amatissima anatomopatologa della serie L’allieva, gran successo di libri e nello sceneggiato tv con Alessandra Mastronardi e Lino Guanciale. 

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My Sweet Quarantine, di Alessia Gazzola

Giorno zero

Al 3127 di Dumbarton Street, a Washington dc, usa, è appena stata sganciata una bomba.

«Smart working?!?»

«Sì. Da oggi.»

«Ma questo vuol dire che resti a casa con me? Cioè, io e te facciamo la nostra parte nel salvataggio del pianeta stando insieme sul divano 24 ore su 24?»

«Madonna mia», è l’avvilita risposta di Claudio.

A me, invece, sembra di visualizzare il paradiso in terra. Stare sempre insieme, cucinare insieme – faremo il pane, dato che non raccomandano altro: fate il pane in casa e surgelatelo, fa bene al corpo e allo spirito. E poi Netflix a palla insieme, e poi non dover uscire a fare jogging che, detto tra noi, io detesto correre mentre lui ha una specie di ossessione.

«Potresti scoprire che non è poi tanto male trascorrere tutto il giorno con me. Sono una che sa come far passare il tempo.»

«Con la maratona di nomi, cose e città? No grazie, ho già dato.»

Che perfido. Allude a quella volta che nevicò così tanto che fummo costretti a rimanere in casa tutto il week end e a un certo punto proposi di giocarci. Mi rinfaccia ancora di aver scritto “erice” come animale con la E. Era un misto tra l’orice e l’istrice, Dio santo, un po’ di flessibilità e fantasia.

Claudio si affaccia al bovindo su piano rialzato, nella nostra palazzina color rosa confetto – la tinteggiatura della facciata era il motivo per cui non voleva venirci a stare. Ma d’altra parte qui siamo vicini all’università e l’affitto è sostenibile – considerato che viviamo solo con il suo stipendio. Io e Claudio siamo a Washington dc ormai da più di un anno. Lui è visiting professor di Forensic Pathology alla Georgetown University, io sto svolgendo il mio dottorato di ricerca che ormai è giunto quasi al termine. Rimpatriare non pare un’ipotesi da attuare nell’immediato, lui dice sempre che lo farà solo quando ci saranno condizioni che a lui sembrano appropriate. Ma, ahimè, lui ha un concetto tutto suo di “appropriato”, diciamo pure che tiene molto alta la sua personale asticella delle aspettative. E quindi restiamo qui.

Il mio inglese è sensibilmente migliorato, ho sviluppato una certa dipendenza nei confronti della cucina vietnamita per via di un takeaway che si trova a due passi da casa e tutto sommato mi piace quest’appartamento, anche se non ho un rapporto facile con la moquette e con l’assenza del bidet. Ma, insomma, sono cose cui alla fin fine ci si può adattare, immagino che tutti gli expat debbano farci i conti.

Washington, va detto, ha numerose attrattive: la Martin’s Tavern, per esempio, dove J.F. Kennedy ha chiesto a Jackie di sposarlo mentre erano seduti a un tavolo che adesso è noto come Proposal Booth – e io prendo posto sempre lì.

In generale, mi piace la vita dei nostri american days, la trovo variegata e stimolante, ci siamo fatti alcuni amici e l’Istituto non è infestato da individui pessimi tipo la Wally.

Ma mi manca l’Italia, spesso, molto. Mi manca il mio lavoro – qui siamo entrambi focalizzati sulla ricerca, di indagini non se ne parla, è un sistema tutto diverso. Non c’è un vicequestore Calligaris che dà retta alle mie supposizioni da investigatrice dilettante. Però mi dico anche che stiamo costruendo qualcosa di importante, che è uno sforzo congiunto per il futuro di entrambi. Metto da parte la nostalgia e vado avanti con fiducia.

«La didattica proseguirà online», mi dice, di spalle, con voce un po’ spenta, riportandomi alla realtà.

«E l’attività di laboratorio?» gli chiedo.

«Limitata a una volta alla settimana. E le riunioni solo in videoconferenza.» Adesso il suo tono è luttuoso. Senza il lavoro gli prenderà uno scompenso che lo obbligherà, finalmente, a partecipare alle riunioni dei workaholics anonimi – come del resto io gli suggerisco già da un po’.

Giorno quattro

In videolezione Claudio è perfino un po’ più acido di come sarebbe dal vivo. Ha sempre quell’insofferenza per chi gli sembra svogliato o disattento, ma amplificata dalla noia e dal senso di impotenza.

Il mio smart working consiste nello scrivere un lavoro sull’interleuchina 6 che mi ha affidato e su cui ha sempre da ridire; durante il giorno ci mettiamo al tavolo da pranzo, uno di fronte all’altra, ognuno al proprio notebook. Ogni tanto mi fa un blitz e mi becca a fare shopping online. Io mi difendo dicendogli che non è colpa dello smart working, l’avrei fatto pure in quell’ex ripostiglio che è la mia stanza in dipartimento.

Così, finisce che il giorno in cui va in laboratorio all’università sento allentato il giogo. Possibile che abbia ragione? Che, in fin dei conti, stare insieme h24 non sia l’inferno ma nemmeno il paradiso?

Giorno cinque

Qui in America si può ancora uscire con una certa libertà individuale.

Solo che, siccome rimaniamo italiani, quando Conte fa le sue comunicazioni ci sembra che si rivolga anche a noi, e così stiamo a casa come i nostri connazionali.

Claudio è sempre più preoccupato, aspetta il bollettino ogni giorno. Il filmato con la camera mortuaria di Bergamo piena di bare lo tramortisce, sta lì davanti allo schermo con la bocca che disegna una O e gli occhi affranti.

E dire che giusto noi alla morte dovremmo esserci abituati, ma come fai a digerire tutte queste storie spezzate, la fatica dei nostri colleghi medici devastati dai turni mentre noi siamo qui, in questo bilocale molto confortevole, con l’unico dilemma di cosa preparare per cena? Anche se siamo medici legali, e per definizione non siamo in prima linea quando si tratta di diagnosi e cura, siamo pur sempre medici. E quella vocazione che abbiamo sentito una volta oggi si ripropone con forza: vorremmo poter fare qualcosa.

Non ne parliamo molto – l’esternazione dei sentimenti più profondi non fa per lui, ma non vuol dire che non ne abbia. Tuttavia, capisco che inizia a sentirsi inutile.

Non mi sembra però il momento giusto per dirgli che vorrei tornare in Italia. O forse sì? Forse meglio aspettare e non indurlo a scelte di vita sull’onda dell’emotività.

Quando sarà tutto passato, affronterò il discorso.

Giorno sei

Mia cognata Alessandra si è messa in congedo per occuparsi di mia nipote Camilla.

«Prima la tenevano i miei. Sai, sono in pensione, a loro fa anche piacere. Ma poi i vigili li hanno fermati e li hanno cazziati perché devono rimanere a casa. Vorrei dire io: e secondo loro, chi me la tiene la bambina, che adesso è in versione flagello di Dio? È difficile qui, Ali. Tanto, e non vediamo la fine

Giorno otto

In una casa qui vicino, con il portoncino pitturato di rosso e una bella ghirlanda fiorita appesa sotto lo spioncino, devono abitare altri italiani. Non me n’ero mai accorta prima. Alle otto in punto, ogni sera, mettono l’Inno di Mameli a tutto volume. La mia Italia lontana, ferita e fragile.

Sarà che ho la lacrima facile, ma oggi mi è venuto da piangere. 

Giorno nove

Faccio una videochiamata con Lara, Paolone ed Erica che si trasforma subito in una specie di jam session in cui si fa a gara a chi la spara più grossa.

«Conforti ti ha già fatta entrare nel giro della tratta delle bianche?» mi chiede Lara.

«Guarda che ti sento», risponde lui, che pensavo fosse in bagno – ma d’altra parte la casa è piccola e lui notoriamente ha i sensi ipersviluppati tipo The Witcher.

«Ma non vale!» esclama Lara.

«Nardelli, io prima o poi ritorno a Roma e sai benissimo che ho buona memoria.»

Giorno dieci

Ho sentito la mia amica Cordelia. Il suo compagno, un farmacista che somiglia a Ben Barnes, le ha detto che quando tutto sarà passato la sposerà. La notizia è così bella che mi commuove: pensare che pur in tempi così duri possano fiorire progetti gioiosi sospende per un momento questa stasi vischiosa che è il presente.

«Mi fai da testimone?»

«E l’altro sarà Arthur?» le chiedo, presagendo che sarà così.

«Ovviamente…»

«Mi fa un po’ impressione.»

«Pensa che dovrete organizzare insieme l’addio al nubilato!»

«È paradossale. Ma non so rifiutarti niente.»

«Dici che posso far portare gli anelli al Cagnino?»

«Non è un cane molto diligente, Cordy, rischi che se ne vada per i fatti suoi.»

«Magari li porta a Claudio e gli suggerisce inconsciamente l’idea di sposarti.»

Magari. Il sogno dell’abito bianco… non l’ho ancora abbandonato. Ma ben più importante è la perfetta comunione dei sensi, e poiché questi sono grandi obiettivi che si raggiungono con piccoli passi, ieri sera l’ho convertito a Downton Abbey. È l’unica cosa in grado di infondermi pace oltre alla pizza. Tuttavia, quando è morto il diplomatico turco nel letto di lady Mary, lui si era già assopito.

Giorno undici

Esco per comprare il «Washington Times»; è martedì mattina, ma la gente per strada è diradata, le caffetterie sono aperte ma l’affluenza è ridotta.

Sembra quasi che la domenica pomeriggio si stia vendicando per essere stata sempre detestata da tutti, diventando eterna.

Giorno tredici

Sarebbero i giorni del National Cherry Blossom Festival, cioè della fioritura degli alberi di ciliegio che nel 1912 furono donati alla città dal sindaco di Tokyo e che sono stati piantati nei parchi che circondano la Casa Bianca e il Jefferson Memorial. Qui a Washington è un evento molto atteso e sentito, un modo per celebrare l’arrivo della primavera e la rinascita dopo l’inverno. L’anno scorso Claudio e io eravamo già qua, nel pieno di quell’ondata di rosa che invade i due parchi a est e a ovest del fiume Potomac. Mi sono sentita fortunata, passeggiando mano nella mano con lui sul dolce tappeto di petali caduti dai rami e sfioriti sulle strade. Il cielo rifulgeva di una luce nuova e io pensavo: forse potrei davvero rimanere qui per sempre, perché oggi è il giorno più bello della mia vita.

Ho tirato avanti tutto gennaio, che è un mese barbosissimo, e pure febbraio, aspettando la festa di marzo e i suoi ciliegi. Mi dicevo: non vedo l’ora, sarà bellissimo come lo scorso anno – ma perché abbiamo la convinzione che se una cosa è stata speciale una volta lo sarà anche la seconda?

Adesso non è più una festa, perché manca la gioia.

Tuttavia, incuranti di tutto quello che sta succedendo all’umanità, i ciliegi stanno fiorendo ancora, segno della vita che si rigenera sempre, anche dopo il più freddo e desolato inverno.

Giorno sedici

Siamo sul divano a due posti tappezzato con tessuto Laura Ashley, lui con il notebook sulle gambe intento a navigare su PubMed come sempre, mentre io sfoglio «Elle Decor».

«Ti rendi conto che un tempo ci lamentavamo di tutto?»

«Tu ti lamentavi di tutto», ribatte.

«Intendo dire, avevamo una routine così tranquilla, non ci mancava niente. Ma soprattutto, non ci mancava la libertà. Se avessimo voluto, saremmo potuti tornare in Italia in qualunque momento. E adesso, hai visto com’è cambiata la vita in meno di un mese? Se quando tutto sarà passato ricomincerò a lamentarmi per scemenze, bastonami.»

«Con immenso piacere», risponde lui con un luccichio di malizia nello sguardo.

«Ordiniamo a domicilio alla Martin’s Tavern?» gli propongo, presa da uno stato d’animo sospeso tra tedio e insoddisfazione.


«Ma se dici sempre che il senso di andare lì è sedersi al Proposal Booth?»

«Vabbè. Sono tempi duri. Mi faccio andare bene anche il carry out», dico, con una resilienza esemplare, ma quando apro la pagina Facebook del locale trovo una scritta a caratteri cubitali: temporarily closed.

Hanno chiuso il 20 marzo.

«Che vita di m…»

«Questo perché il coronavirus doveva insegnarti a non lamentarti più per scemenze. Prendo il bastone?»

«Ma questa non è una scemenza!» mi difendo.

Martin’s Tavern chiuso. Non si rende proprio conto!

Giorno diciotto

Oggi è dura. Veramente.

Il mondo è paralizzato, eppure i numeri continuano a salire.

Scienziati e capi di stato rassicurano: è normale. Questi numeri non restituiscono la situazione attuale ma quella di almeno due settimane fa, quando le misure non erano così drastiche.

Fuori non si vede un’anima e il cielo è di un grigio asfittico e opprimente.

Giorno diciannove

Ho preso 2,7 kg.

Si è realizzato il mio incubo: mangio poco eppure ingrasso, ma d’altra parte stando sul divano le uniche calorie che brucio sono dovute all’indice che scorre sul mio telefono.

«Bella di nonna, stai in campana, vedi di farti ’na corsetta», mi dice mia nonna, sempre sul pezzo, durante una videochiamata.

«Nonna, invece tu non uscire per nessun motivo al mondo.»

«Ma dove devo andare io?»

«Ecco, appunto.»

«Ho la ricrescita, guarda qua», mi dice, indicando la chioma che ci tiene sempre ad avere biondo cenere. In effetti ha un centimetro abbondante di bianco. «E non è venuta più manco quell’ingrata dell’ucraina che mi faceva le unghie.»

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«Nonna, non può venire. Le fanno la multa se esce di casa. E poi per te è meglio che non ci sia un viavai di gente da casa tua.»

Nonna Amalia sbuffa. «Se a noi vecchi non c’ammazza il coronavairus, c’ammazzano la noia e la solitudine. Mi prometti che parli con il dottorino e lo convinci a tornare in Italia?»

«Nonnina…»

«C’hai ragione, scusami. Sono fatti vostri, noi non ci dobbiamo mettere bocca.» 

Giorno venti

Ho messo sottosopra la cucina, ma niente, non lo trovo: il barattolo di vetro con il lievito madre che ho iniziato a nutrire la settimana scorsa è scomparso.

Tanto lavoro, ricordarmi ogni ventiquattro ore di rinfrescarlo, e lui che cresceva promettendomi pane e lievitati mai provati prima…

«Pensavo che fosse una delle schifezze che lasci sempre andare a male», confessa CC.

«Potevi chiedermelo, prima di buttarlo!»

«Ma non sei tipo da lievito madre, dai.»

«La quarantena dovrebbe indurci a fare cose nuove…» dico, e gli recito diligente i messaggi che girano sui social tipo «una drammatica prova che può renderci migliori», e cose così.

«Tutte balle.»

Claudio non è quel genere di persona suscettibile a svolte suggerite dalla cosiddetta forza maggiore. O l’impulso nasce in lui e da lui, o non funziona.

«Senti, facciamo un gioco», gli propongo. «Qual è la prima cosa che vorresti fare, quando tutto sarà finito?»

«Ci posso pensare?»

«Non è che dev’essere per forza una risposta esistenzialista a effetto. Anche una cosa banale, una di quelle che davamo per scontate.»

Ignora la precisazione e rilancia: «Tu? Cosa farai?».

«Abbraccerò la gente.»

«Ma così, random? Anche gli estranei?»

«Yes. Mi colloco davanti al Monumento a Washington con il cartello free hugs, abbracci gratis.»

Lui sospira. È un po’ malinconico, in questi giorni. Gli manca la vita, quella vera. A me tutto sommato non stravolge stare tanto tempo in casa: sono pigra, per me stare sul divano a guardare una serie tv è il divertimento. «Però», dice, mentre prendo dai pensili della cucina tutto il materiale per ricominciare da capo a fare il lievito madre, «però… nell’attesa di elargire abbracci a tutti, puoi darne uno a me.»

Tenerone! Ha fatto svoltare la mia quarantena! In altri tempi non l’avrebbe mai detto. mai.

«Sicuro che si può?» gli chiedo.

«Ma com’è che mi nasce sempre il sospetto che tu la laurea in Medicina l’abbia presa con il gratta e vinci?»

«In microbiologia ho preso 19.»

«Si spiegano molte, molte cose.»

Metto fine alle chiacchiere con un abbraccio consolatorio così forte e così stretto che mi sfugge un piccolo gemito.

Giorno ventidue

Roba da quarantena: ho ordinato su Amazon un album di Mandala da colorare a tema unicorni (Mandala prodigiosi, recita il sottotitolo) e un pacco di pennarelli a spirito. Non li usavo dalle elementari.

Colorare ha il suo perché, lo si deve ammettere. È passata un’ora e non me ne sono nemmeno accorta.

«E poi che facciamo quando hai finito, li appendiamo alle pareti?» mi chiede CC.

«Dici veramente?»

Claudio rivolge lo sguardo verso l’alto, alla ricerca di una qualunque divinità, per farsi infondere la virtù della pazienza. Tempo perso: è escluso che possa attecchire in lui.

Giorno ventitré

Davvero esisteva una vita prima di tutto questo?

Davvero potevamo uscire, davvero eravamo liberi di fare tutto quello che volevamo?

Davvero davanti a noi esistevano tutte le possibilità dell’infinito?

Davvero tornerà la normalità?

Giorno venticinque

«Hai comprato tu online un “tappetino da yoga imbottito antiscivolo”?»

«Sì.»

«Ma se hai sempre detto che lo yoga non ti piace!»

È vero, mi annoia e mentre lo faccio in genere penso a cosa mangiare dopo. Tuttavia Cordelia dice che, senza lo yoga, in quarantena le verrebbe uno scompenso psicotico. E siccome mi ci sento vicina anche io, ho pensato che fosse il momento adatto per affrontarlo con lo spirito giusto. 

Giorno ventisei

Ho tagliato la frangia con la forbicina per le unghie seguendo un tutorial. Un disastro assoluto. I free hugs passano in secondo piano: la prima cosa che farò finita la quarantena sarà andare dal parrucchiere. Con estrema urgenza.

Giorno ventinove

«Hai ordinato tu online cinquecento grammi di “Parmigiano Reggiano riserva speciale antica ricetta dei monaci benedettini” a 299 dollari al chilo?»

«Sì. Ho avuto un attacco di nostalgia dell’Italia. E poi è il momento giusto per concederci un piccolo lusso. Non credi?»

«…»

Giorno trentacinque

«Hai ordinato tu online un “massaggiatore viso 3D per lifting facciale a V” a 199 dollari?»

«Era in offerta a tempo.»

«Io ci rinuncio, davvero.»

Giorno X

Non so più che giorno di quarantena sia. Ho perso il conto, forse non è più così importante: non si prevede ancora quando tutto questo finirà.

Il numero delle vittime è altissimo. È morto anche il nonno di mia cognata Alessandra. Aveva ottantadue anni e soffriva di pressione alta. Per il resto, era un simpatico vecchietto tonico e in forma fino all’ultimo, del genere Ernesto Calindri in Villa Arzilla. Non possono fargli nemmeno un funerale con tutti i crismi.

In tanti hanno perso i nonni. Ma non solo. Alessandra – che nella rendicontazione delle tragedie è molto precisa – mi racconta di un nostro collega di corso che ha la nostra età ed è finito in rianimazione con una brutta polmonite.

Il mondo è in ginocchio, non uscire di casa ormai è il minore dei problemi e dei mali.

Ci sentivamo tutti invincibili e titolati a poter chiedere sempre di più; tutto era dovuto in questa epoca storica fortunata.

Se c’è una lezione da imparare è proprio quella della nostra precarietà. Forse, dopo tutto questo, avremo imparato a lasciare andare la vita senza la pretesa di volerla controllare a tutti i costi. A prenderla con più leggerezza, a incazzarci di meno se le cose non vanno come previsto, ad abbandonarci al flusso della tempesta, anche la più violenta, senza temerlo. 

Ennesimo giorno X

È notte, ma non riesco a dormire.

Anziché girarmi e rigirarmi nel letto, è meglio che mi alzi del tutto.

Prendo dalla dispensa l’ultimo pacco di Oreo e mi metto sul divano a guardare in tv per la millesima volta Harry, ti presento Sally.

Sono arrivata alla scena in cui Harry e Sally sono insieme al Metropolitan, quando Claudio compare in sala. Versa del vino in due bicchieri e prende posto accanto a me porgendomene uno. Un party di mezzanotte! Allora è vero che la quarantena può riservare inattesi momenti speciali.

C’è in casa un’atmosfera intima, possibilista, gradevole persino, un po’ come quella della vigilia delle feste. «Cin», gli dico.

«Cin», risponde lui.

«Non riesci a dormire neanche tu?» gli chiedo.

«Mi sento totalmente sballato.»

«Sono saltati i ritmi.»

«È saltato tutto, questa è la verità. Stavi guardando un film?»

«Tanto lo conosco a memoria. Hai voglia di parlare?»

«Non ti preoccupare.»

Rimetto play, ma cinque minuti dopo interrompo di nuovo perché Claudio mi dice: «Hai presente quando mi hai chiesto cosa vorrei fare quando tutto sarà passato?».

«Hai la risposta?» Annuisce. «Ce ne hai messo di tempo!»

«Perché ci penso due volte prima di parlare, io. Non si sa mai. Potresti usare contro di me cose dette in un momento di debolezza.»

«Insomma, cosa vorresti fare?» gli chiedo, guardandolo negli occhi.

«Non è qualcosa che sto dicendo tanto per dire.»

Ha il viso stranamente disteso, senza l’ombra della tensione che lo ha indurito negli ultimi tempi .

«Difficilmente dici qualcosa tanto per dire. Nel bene e nel male. Forza, parla. Non lo userò contro di te, prometto.»

«Lo sai che sono contrario alla retorica di tutte le cose che ci ha insegnato il Coronavirus.»

«Non riesco a immaginare una persona più cinica.»

«Non è cinismo, è che mi danno fastidio tutti questi propositi di buone intenzioni, quando poi torneremo tutti come prima se non peggio, quando tutto sarà passato. Sono cose che si dicono perché siamo disperati, poi ce ne dimenticheremo.»

«Be’, magari non tutti. Io certe promesse che ho fatto a me stessa in questi giorni intendo mantenerle», affermo con convinzione, ma lui inarca un sopracciglio in una smorfia scettica.

«Vedremo. L’ottimismo non è il mio forte.»

«Non a caso ti abbiamo sempre chiamato dottor Sconforti. E quindi? Cos’è che vorresti fare come prima cosa, quando finirà la quarantena?» insisto.

Lui finisce di bere, poggia il bicchiere per terra e, incredibile, si asciuga le belle labbra con la manica della maglietta. Dopo questo gesto posso ben dirlo: è arrivata la fine del mondo.

«Io vorrei tornare in Italia», dice, con voce forse un po’ stanca, forse emozionata. Non lo so. «Voglio tornare a casa, Alice.»

E io lo speravo, Dio se lo speravo.

© 2020, Garzanti S.r.l., Milano

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