Si è aperta sabato mattina la stagione delle Grandi Classiche del ciclismo che conta davvero. È un po’ una sorta di cambio di stagione per il sottoscritto, che non cambia il guardaroba, ma almeno gli sport…sì.
Nel giorno in cui Johannes Boe si inchinava davanti al Re di Norvegia dopo aver vinto, anzi dominato, la Coppa del Mondo di Biathlon.
Nel sabato in cui Chicco Pellegrino mi ha fatto saltare dalla stube (perché per il divano era ancora troppo freddo) per l’ennesimo podio dietro a quell’imprendibile Klaebo.
Nel weekend in cui il mio personale Paradiso terrestre invernale era ormai sul punto di giungere al termine, comparve all’orizzonte un Monumento. Dalla sua base al suo apice, che per davvero toccava le nuvole in mezzo alle quali ha sede l’Eden, e a un tempo raggiungeva anche l’infinita distesa del Mare, si frapponevano 294 chilometri.
Duecentonovantaquattro chilometri di fatica, sudore, sangue, ma anche chiacchiere, emozioni ritrovate, perché era dalla Classica delle Foglie Morte (Il Lombardia) che in gruppo non si respiravano quelle sensazioni.
Nel ciclismo i Grandi Monumenti sono cinque e tra questi due parlano italiano: il primo è proprio la Milano-Sanremo. Cambia il percorso (per questioni che nulla hanno a che fare con il ciclismo), eppure i pilastri su cui si regge questo assoluto patrimonio dell’Umanità, sono sempre gli stessi: il Passo del Turchino, la Cipressa e il Poggio.
È vero: per duecentocinquanta chilometri ci si annoia, non ha senso guardarla, Dio salvi Greg (Luca Gregorio) e’l Magro (Riccardo Magrini) che trovano di che parlare per sette ore di diretta in compagnia di Moreno Moser.
Poi, però, Pikachu Pogacar inizia a far lavorare la sua UAE e Pasqualon attacca il Poggio con alla sua ruota Mohoric con la stessa velocità di quando, da piccoli, scappavamo dalla mamma che ci inseguiva pronta a scagliarci contro la ciabatta. Poi Trentin si blocca di colpo rompendo il gruppo di testa e Tadej attacca, e dalla stube si gode.
Si gode perché il ciclismo non ha bandiera.
Si gode perché Pippo Ganna si è dimenticato di portare sui pedali centonovantatré centimetri conditi da ottantadue chili e va ad allacciare lo strappo con lo sloveno.
Si gode perché insieme a loro ci sono i due rivali di una vita intera: Wout (Van Aert) e Mathieu (Van Der Poel).
Scatta VDP quando ormai manca pochissimo alla fine dei tre chilometri e settecento metri che compongono il Poggio. Il predestinato, il nipote di Raymond Poulidor, sta rendendo materia ciò nella notte prima era solo un sogno, che si rivela in quel momento premonitore. Sessantadue anni dopo il nonno Pou-Pou, Mathieu alza le braccia al cielo nella mitologica Via Roma: la Città dei Fiori è nelle se mani. L’imperatore Matteo si prende la Sanremo, mentre dietro al fenomeno della Alpecin-Deceuninck, a regolare il trio, spunta uno straordinario Filippo Ganna. La campagna delle Classiche è finalmente iniziata.
Signore e Signori, buona Primavera a tutti.
L’articolo Il Poggio, i Fiori e l’Imperatore Mathieu proviene da Nati Sportivi.