Isabelle Huppert: «Voglio essere figlia, non madre…»

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Capelli rossi, maglione bianco e piedi nudi, Isabelle Huppert, attrice fino al midollo, così indecifrabile nella vita, si lascia scivolare nella poltrona. E in un attimo assieme a lei passano in rassegna tutti i suoi personaggi: la “fabbricante di angeli” di Un affare di donne, la zitella isterica di La pianista, la madre esclusa di Copacabana, la borghese violentata di Elle. Sullo schermo si impone con naturalezza come la bianca regina del silenzio, militante convinta dell’imperscrutabilità e dell’assenza. Qui in città ride molto e teorizza come nessun altro sul piacere che trae dalla recitazione e sul suo amore per la commedia, dove il tragico «deve sempre in qualche modo autoinvitarsi».

Nel suo nuovo film, La Daronne di Jean-Paul Salomé, tratto dal romanzo di Hannelore Cayre, recita la parte di Patience Portefeux: un’interprete franco-araba (per il ruolo ha dovuto imparare la fonetica araba), specializzata in intercettazioni telefoniche per la squadra narcotici, che casualmente si ritrova a dirigere un vasto traffico di droga. L’occasione fa l’uomo ladro: consegna cocaina a Barbès, spara a un matrimonio cinese… Isabelle Huppert si diverte molto a comporre il ritratto di questa spacciatrice. Ecco l’incontro con un’attrice no limit, ossessionata dal desiderio incessante di essere qualcosa di diverso da quello che è, la “daronne”, la “madre” del cinema francese.

Coincidenze fortunate

Come ha scoperto La Daronne?
Alla radio. Ho sentito parlare su France Culture Hannelore Cayre, che nel 2017 aveva appena vinto il Grand Prix per la letteratura poliziesca, e mi sono precipitata ad acquistare il romanzo. In quello stesso periodo ero spesso in viaggio con Jean-Paul Salomé, allora presidente di Unifrance (agenzia che promuove i film francesi all’estero, ndr), per sostenere Elle di Paul Verhoeven. A un tratto mi parla di La Daronne. Una coincidenza fortunata… Un ruolo ben scritto. Un personaggio imprevedibile. Riprese molto divertenti. È venuto tutto in modo naturale.

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Isabelle Huppert in una scena di “La Daronne”.

È una commedia? Una tragicommedia?
La sceneggiatura ricalca fedelmente il libro – un ritratto di donna – che a volte segue le vie della commedia, a volte quelle di un thriller. La protagonista è una grande bugiarda. Inganna il suo mondo, compreso il capo della squadra antidroga (Hippolyte Girardot, ndr), suo amore platonico. È anche una bella storia d’amore che non si concretizzerà mai. Alla fine del film, Patience, mai nome fu più azzeccato, parte per una destinazione sconosciuta. Una cowgirl solitaria. Qualcosa di lei rimane velato. Un velo di imperscrutabilità è l’essenza stessa del cinema.

Una notte di follia

L’anno scorso sui social network girava un video in cui ballava la hit anni ’80 Nuit de folie, in una festa a fine riprese…
Era un bel po’ di tempo fa… Forse potremmo passare ad altro, che ne dice? (ride) Suppongo di sì. Adoro ballare sulle note di Nuit de folie. In realtà adoro ballare e basta.
Come definirebbe il suo umorismo?
A volte interiore, spesso beffardo, l’umorismo è ancora meglio se è condiviso, anche se a volte si è soli con se stessi a viverlo. Sorrido di tutto. In particolar modo dei codici sociali.
Il personaggio ha ereditato l’amoralità dai genitori. Cosa le hanno trasmesso i suoi?
La curiosità, indubbiamente. Il desiderio di fare sempre cose diverse. Questo mi viene da loro e dall’ambiente in cui sono cresciuta.

 

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Isabelle Huppert al Festiva di Cannes nel 2019 (foto Ansa).

“Mi affido alla forza”

Sostiene che non si possa trasformare un ruolo, ma che sia il ruolo a trasformare l’attore…
Organico e autonomo com’è, il film ti definisce, ti nutre, ti “fabbrica”. Credo in questa forza che ti fa agire più di quanto non sapresti fare da solo. Pensiamo sempre che recitare sia aggiungere: al contrario è sottrarre, affidarsi a una forza che ci spinge. Soprattutto quando, come in questo caso, si interpreta un personaggio che si dispiega scena dopo scena.
Ha in programma di recitare all’Odeon di Parigi in Lo zoo di vetro di Tennessee Williams, pièce diretta da Ivo van Hove. Cosa la attrae di questo ruolo?
Si tratta di una vera madre ingombrante, abusiva, piuttosto infelice, commovente e davvero folle, come tutte le madri, fondamentalmente. Quella di collaborare alla realizzazione di questa pièce è stata un’idea di Ivo, non mia. Come Bob Wilson, Ivo non prova molto: tre settimane. Ma questo non mi dispiace. Non ho problemi ad adattarmi a un tempo prestabilito, che sia molto lungo, come nel caso di Claude Régy (che l’aveva diretta nel monologo di Sarah Kane 4.48 Psychose, ndr), o molto breve. È così, e non si discute.

Isabelle Huppert nella serie tv “Chiami il mio agente”.


“Mi piace l’insolenza”

Cosa le piace di Ivo van Hove?
È veramente, come si dice, un grande regista: realizza spettacoli molto diversi tra loro. Ho assistito a tutti quelli che sono stati rappresentati a Parigi, e ad alcuni a New York e Amsterdam, tra cui una fantastica Mary Stuart. L’ho vista con ancora più piacere perché avevo recitato quel ruolo nello spettacolo al Royal National Theatre di Londra e poi, più avanti, in Mary Said What She Said di Bob Wilson. Ivo van Hove è versatile nel senso migliore del termine. Mi piace il lavoro che fa con gli attori, la sua insolenza e il suo gusto per la trasgressione. Se è vero che il teatro è il luogo dell’utopia, allora deve essere soprattutto un luogo di trasgressione.
Il regista Ira Sachs, con il quale ha girato Frankie, assicura: «Isabelle recita benissimo pur senza recitare».
“Benissimo” non sta a me dirlo, ma “senza recitare” è il miglior complimento che mi si possa rivolgere. Naturalmente la cosa non è priva di rischi. A volte il pubblico ha bisogno di indizi più evidenti! Nell’opera di Ira Sachs, l’essenza stessa della sua regia invita a restituire il senso della realtà, ci si dimentica dei personaggi. Non c’è altra verità se non quella soggettiva, la verità che ci fa dire chi siamo.

 

Isabelle Huppert sul red carpet di Cannes 2019 (foto Ansa).

“Il destino viene in aiuto”

Si è divertita nella serie Chiami il mio agente, dove ha impersonato una Isabelle Huppert travolta da un’intervista e due riprese nella stessa serata?
Sì, moltissimo! Amo lavorare con Marc Fitoussi, regista dell’episodio, con il quale ho girato Copacabana e La ritournelle. Certo, si tratta di una mia rappresentazione decisamente forzata. Detto questo, l’attrice che chiede al regista americano di aggiungere delle scene extra quando il tempo è a dir poco contato… mi assomiglia abbastanza. (ride)
Si rivolge sempre ai registi con cui vorrebbe lavorare?
Non è così che funziona. Nella vita di un’attrice le strade si incrociano. Il destino e gli spostamenti ti vengono in aiuto. Come le compagnie aeree. O le ferrovie, quando funzionano!
Che impressione fa rifiutare un film e poi vederlo uscire?
Domanda molto complicata! Devi dirti, come faceva Hitchcock, che in fondo si tratta soltanto di un film. Rispetto all’eternità, non è particolarmente grave; in una prospettiva più breve, diciamo che dipende dal film…

 

Isabelle Huppert in una scena di “Frankie” (foto Ansa).

Anarchica e femminista

Si definisce “inconsapevolmente femminista”.
Sì, un po’ come la protagonista del film, che è anarchica senza saperlo. Da quando ho incominciato a recitare, ho fatto film in cui i personaggi esistono in modo autonomo, indipendentemente dallo sguardo maschile. Questo è ciò che ho sempre desiderato fin dall’inizio.
Ha recentemente affermato che le donne devono essere tutelate meglio dal punto di vista economico…
È un proposito tutt’altro che rivoluzionario, ma continua a essere comunque valido. Parità di retribuzione significa riconoscere a ogni donna un senso di legittimità. Ma pare che non sarà possibile raggiungerlo prima del 2220! Non è molto incoraggiante!
Ha mai pensato di girare meno film?
Una cosa è quello che penso e un’altra è quello che succede, la vita funziona così. Ma ho l’immenso privilegio di fare qualcosa che mi piace, con le persone che mi piacciono. Perché dovrei rinunciarci?
Se le dicessero che è la “madre” del cinema francese…
Dovremmo accordarci sulla definizione del termine: divertente da dire, ma non così facile da capire. La madre del cinema francese? Preferirei essere la figlia…

 

Isabelle Huppert come una modella (foto Ansa).

La moda nel Dna

Nella serie Chiami il mio agente, Isabelle Huppert, nonostante una gestione dell’agenda che ha in sé qualcosa di epico, riesce a liberarsi per partecipare alla Fashion Week. Pura finzione? Spesso seduta in prima fila alle sfilate, l’attrice prende la moda molto sul serio. E ne ha tutte le ragioni. La sua bis-bisnonna Marthe Bertrand fondò nel 1895 la casa di moda Callot Soeurs, molto apprezzata dagli aristocratici europei. Marthe aveva iniziato come merlettaia e Isabelle, per un curioso gioco del destino, nel 1977,
diventa l’eroina silenziosa di La merlettaia di Claude Goretta, un film che traspone la lotta di classe sul terreno dei sentimenti amorosi.

Isabelle Huppert sul red carpet della Mostra di Venezia 2019 (foto Ansa).

«La moda? La seguo, la osservo, la adatto ai miei gusti, alle mie esigenze» spiega. Ama Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto, capaci come sono di lasciare traccia del loro lavoro nel tempo. Da Nicolas Ghesquière
a Bouchra Jarrar, apprezza il lavoro di tutti i creatori impegnati in un “territorio di convinzioni stilistiche”.
Ammira l’alta moda, “poetica, futuristica”. Insiste nel ripetere che «l’abbigliamento è una sorta di scrittura di sé» e che «un bel vestito aiuta a diventare invisibile». Altrettante possibili definizioni di se stessa. 

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