All’inizio erano cinque. Cinque universitari della Bocconi che non si accontentavano di studiare per gli esami e quando si trovavano al Tortuga per una birra ragionavano – in quel pub di Porta Romana così poco milanese che richiama lo spirito dirompente dei pirati – su come usare ciò che studiavano per dare una spinta al Paese. Oggi quei ragazzi sono una cinquantina, hanno tutti meno di 30 anni – sono sì studenti universitari, ma anche ricercatori e giovani professionisti nel campo dell’economia e delle scienze sociali -, vengono ancora da Milano ma adesso pure da Bologna, Roma, Madrid, Oxford, Dakar… E Tortuga non è più solo il loro pub. Oggi Tortuga è il nome del think tank a cui hanno dato vita proprio per costruire soluzioni politiche ai problemi dei giovani. Del resto, gli adulti finora non ci sono riusciti.
Il libro esperimento
Ci pensiamo noi. 10 proposte per far spazio ai giovani in Italia (pubblicato da Egea) è il loro primo libro, un libro-esperimento che prova, appunto, a ragionare su soluzioni molto concrete. «Il titolo è provocatorio: certamente non abbiamo ricette pronte da calare dall’alto e non vogliamo fare quelli con la verità in tasca. Applichiamo un metodo, ovvero partire dai fatti», dice Marco G. Palladino, uno tra i primi studenti a entrare in Tortuga e uno dei quattro giovani che hanno raccontato a Io donna le proposte del think tank. Aggiunge Antonio Nicoletti, tuttora alla Bocconi, riferimento di spicco del gruppo: «Il nostro motto è “Non arrivarci per contrarietà”. Vogliamo avere un approccio proattivo, senza idee preconcette o negatività verso chi non la pensa come noi. Vogliamo sederci a un tavolo con tutti e dire la nostra per cercare soluzioni ai problemi più grandi dei nostri coetanei».
Donne, famiglia e lavoro
Ad esempio, il problema per cui, lo scrivete anche voi, non mettete su famiglia. Partiamo allora da questa contraddizione: l’Italia è tra i Paesi europei con la percentuale più bassa di donne che lavorano e anche quello in cui si fanno meno figli. Voi che proposte fate?
Arianna Gatta: «Anzitutto, rispetto alla natalità noi vorremmo puntare su politiche strutturali di lungo periodo: non serve a nulla cercare di aumentare le nascite nell’immediato, magari con tante misure frammentarie e che poi non durano lo spazio di un governo. Secondo noi, l’interesse del Paese dovrebbe essere sostenere la natalità per più generazioni, e del resto è da decenni che si fanno troppi pochi figli, già dal 1977 meno di due figli a famiglia. In Italia, poi, si ignora spesso che laddove donne e uomini hanno le stesse opportunità – e gli stessi obblighi – ci sono tassi di fecondità più alti, vedi i Paesi Scandinavi. E infatti si vive un paradosso: se le coppie vogliono avere un figlio è possibile che la madre debba restare a casa per prendersene cura ma, se sta a casa, la famiglia non ha sufficiente reddito per fare un altro figlio. Con il risultato, paradossale appunto, che il numero medio di figli per donna è 1,3 e, allo stesso tempo, solo il 49,7 per cento delle donne tra i 15 e i 64 anni risulta occupata (dati 2018). Bisogna quindi aiutare le coppie a conciliare la vita professionale e quella famigliare e supportarle con sostegni economici di lungo periodo».
Sostegni economici e paternità
Riguardo ai sostegni economici, al momento la misura più rilevante per le famiglie con figli sono gli sgravi fiscali…
Arianna Gatta: «Di cui però le persone più povere non possono beneficiare perché non hanno tasse da pagare. Noi proponiamo di mettere direttamente denaro nella mani delle famiglie, di tutte le famiglie con un ISEE sotto i 35.000 euro, con importi variabili sulla base di tre fasce. In aggiunta, proponiamo un voucher da spendere per baby sitting, nidi privati, spese mediche, pannolini: il voucher verrebbe destinato a bambini da zero a cinque anni i cui genitori lavorano entrambi o uno dei due sta cercando lavoro con i centri per l’impiego».
Per voi è dunque imprescindibile sostenere il lavoro delle donne. Ma senza condivisione in pari misura della cura dei figli e del lavoro domestico non si va da nessuna parte. Gli uomini della vostra generazione sono pronti a farsene carico?
Antonio Nicoletti: «Sì, assolutamente sì. Io ho avuto la possibilità di scegliere l’azienda dove lavorerò, e ho scelto un’azienda che incoraggia proprio il congedo di paternità».
Marco G. Palladino: «Io ora vivo a Parigi, la mia ragazza a Londra. Per noi sarà un miracolo avere un casa insieme, un giorno, chissà quando. È una situazione comune a diversi coetanei. Tornando a Tortuga, sto studiando il gap salariale tra donne e uomini e le evidenze mettono in luce che la nascita di un figlio ne è, in ordine di tempo, la prima causa: pur di avere accesso a lavori flessibili, molte donne accettano remunerazioni più basse».
Detto questo, in Italia pochi padri usano il congedo di paternità. Qual è la proposta concreta di Tortuga?
Arianna Gatta: «Noi proponiamo un congedo di paternità obbligatorio per 4 settimane da utilizzare entro un anno dal parto e in sostituzione dei giorni di congedo della madre. Questo farebbe anche sì che i datori di lavoro comincino a pensare in maniera simile maternità e paternità: oggi le donne sono discriminate perché il carico di cura dei figli è quasi interamente sulle loro spalle, le aziende lo sanno bene, così, tendenzialmente, preferiscono assumere i maschi. Cambiare il percepito delle aziende sulla maternità sarebbe un passo determinante. Il punto d’arrivo è, naturalmente, la gestione paritaria della cura dei figli».
Millennials e lavoro
A proposito di paradossi, eccone un altro: voi Millennials siete la generazione più istruita che l’Italia abbia mai avuto e, allo stesso tempo, destinata a condizioni economiche e prospettive incerte. Come avete pensato di intervenire?
Marco G. Palladino: «Il tema è davvero molto complesso e il lavoro è certamente il nostro problema principale. Anche quando c’è, il lavoro è spesso di bassa qualità, precario e poco pagato, certamente meno che in altri Paesi d’Europa: anche chi di noi si laurea in ingegneria è spesso costretto ad andare all’estero. Nel nostro Paese, poi, scontiamo un problema peculiare, il marcato mismatch delle competenze: secondo l’Ocse, in Italia più o meno il 40 per cento dei lavoratori non possiede le competenze richieste dalle aziende o perché troppo limitate rispetto al livello richiesto oppure, al contrario, troppo elevate».
Avete diverse proposte sul lavoro. Cosa proponete contro la precarietà sottopagata?
Marco G. Palladino: «Secondo noi il primo passo sarebbe introdurre un salario minimo nazionale e, insieme, decentrare la contrattazione, ovvero fare sì che i rapporti di lavoro siano regolati tra rappresentanze sindacali e datori di lavoro su un piano più periferico rispetto a quello nazionale, ovvero su un livello territoriale, di categoria o aziendale. Ciò consentirebbe di valorizzare le specificità aziendali o del tessuto produttivo, una peculiarità del nostro Paese, quindi di rendere i rapporti di lavoro più dinamici, di stimolare l’innovazione, di lavorare sul potenziale di crescita, sul capitale umano… La nostra proposta prevede, poi, l’istituzione di una commissione permanente al Cnel con obblighi consultivi e di iniziativa legislativa in materia di contrattazione e retribuzione dei rapporti di lavoro».
Valorizzare talenti e competenze
Parlate spesso di capitale umano, siete convinti che scommettere sulle persone, sui loro talenti, sulle loro competenze, sulla loro crescita diventerà sempre più cruciale per creare innovazione, sviluppo, benessere. Cosa proponete?
Emma Paladino: «Di mettere al centro la scuola. Noi proponiamo misure forti che, anzitutto, garantiscano in termini di percorso scolastico le stesse opportunità a tutti, senza discriminazioni economiche, sociali o territoriali: è innegabile che oggi chi nasce in contesti famigliari agiati e istruiti, ma anche nelle regioni del Nord, va incontro a performance scolastiche e opportunità superiori agli altri».
Arianna Gatta: «Scommettere sulle persone per costruire un futuro migliore per tutti vuol dire anzitutto scommettere sugli insegnanti, rispetto ai quali noi proponiamo un aumento generale dei salari, associato a un sistema di valutazione e premi e a un continuo percorso di formazione».
Asili e maternità
Avete anche una proposta specifica per gli asili nido.
Emma Paladino: «Sì, secondo noi si dovrebbe porre grande attenzione sugli asili nido non più solo perché sgravano i genitori che lavorano, ma soprattutto per le loro potenzialità educative: nei primi anni di vita, quando il cervello è più fertile, si forma la capacità cognitiva nel futuro. Purtroppo, si sa che l’offerta di asili nido è nettamente inferiore alla domanda: nel nord Italia ci sono per il 30 per cento dei bambini, in Campania, Calabria e Sicilia non si raggiunge il 10. È prioritario, invece, arrivare al 33 per cento in tutte le regioni, il traguardo minimo fissato dall’Europa».
Le scuole materne ed elementari italiane rappresentano, secondo diversi indicatori, un’eccellenza. Poi, ci perdiamo.
Emma Paladino: «Secondo noi bisogna cominciare a immaginare una scuola diversa da quella che abbiamo, pensando per esempio a ridurre e riorganizzare quell’impressionante numero di opzioni tra cui un ragazzo o una ragazza che esce dalle medie si trova in un brevissimo spazio di tempo a scegliere (tra licei, istituti tecnici, istituti professionali e relativi indirizzi, arriviamo a più di 50, ndr). I ragazzi dovrebbero poter scegliere in maniera graduale. Noi immaginiamo che per i primi tre anni di istruzione superiore, tutte le scuole condividano gran parte delle discipline, e che negli ultimi due si differenzino, da una parte con alcune materie caratterizzanti, dall’altra dando modo agli studenti di personalizzare il curriculum».
Fuga dei cervelli
In dieci anni hanno lasciato l’Italia più di 180.000 laureati: voi scrivete che il 40 per cento di quelli residenti all’estero ha chiuso gli studi con 110 e lode, rispetto al 24 di chi è rimasto. Insomma, dite voi, se uno è bravo scappa.
Antonio Nicoletti: «La fuga dei cervelli non è di per sé negativa. Diventa un dramma se un Paese riceve sistematicamente meno cervelli di quanti ne esporta».
Infatti voi sostenete che nessun muro può e deve trattenere un giovane che cerca prospettive migliori in un altro Paese.
Antonio Nicoletti: «Il compito di un Governo non dovrebbe essere solo arginare la partenza dei giovani, ma riequilibrarla attraendo talenti dall’estero. Noi crediamo che si debba lavorare per un’Italia più internazionale, per esempio semplificando il sistema di riconoscimento dei titoli acquisiti nei Paesi extraeuropei, favorendo la formulazione di corsi in inglese e l’assunzione di ricercatori e docenti stranieri nelle nostre università, ponendo più attenzione ai progetti Erasmus che portano studenti nel nostro Paese. Ma se si attraggono talenti stranieri, bisogna poi trattenerli: lo si può fare introducendo un programma di visti di lavoro per studenti extraeuropei ed estendendo gli sgravi fiscali oggi previsti per gli italiani che rientrano anche agli stranieri laureati che decidono di restare in Italia. Dopodiché, resta il punto che per creare davvero un’Italia più internazionale e attrattiva servono riforme strutturali, azione concrete e complete che rendano più competitivo il mercato del lavoro e il nostro Paese più meritocratico, ma che realizzino anche un ambiente adatto ai giovani e alle loro necessità, non solo professionali: un ragazzo olandese, abituato a una cultura avanzata sul piano dei diritti individuali, difficilmente deciderà di restare in un Paese, il nostro, che si trova anni luce indietro sui congedi che spettano a un uomo appena diventa padre».
L’articolo Tortuga: «Le proposte di noi under 30 per un’Italia migliore» sembra essere il primo su iO Donna.