Il gregario: maestro di vita

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Erano rimasti in cinque. Cesare sapeva chi erano i suoi ultimi compagni di quell’incredibile giornata e non poteva che temerli.

Nella fuga si è mercenari: la squadra smette di essere quella stampata sulla maglietta e inizia a coincidere con gli uomini che hai al tuo fianco, ma non appena l’obiettivo è la vittoria, di nuovo tutti nemici. Avevano appena superato la flamme rouge e in quell’ultimo chilometro la tensione era alle stelle.

Non era una tappa qualsiasi, pochi istanti non li separavano da un traguardo come gli altri: vincere lì voleva dire consacrarsi tra gli dei del ciclismo. Lì dietro, oltre quelle ultime curve, c’era Pinerolo, dove nel 1949 Coppi alzava le braccia al cielo dopo l’ennesimo scontro epocale con Bartali, il rivale di sempre, in una “tappa divoratrice di uomini”, forse la migliore tappa della storia del Giro.

Tutti conoscevano il valore implicito di quella vittoria. Si guardavano da un po’, ma adesso il tempo stringeva: pochi attimi e qualcuno sarebbe partito, cercando di anticipare gli altri sul traguardo. Ultima curva. Attacca Brambilla, inizia la volata: iniziano quei secondi in cui tutto diventa nero, sfuocato. Un unico pensiero rimbomba: spingere, spingere, spingere.

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Le gambe bruciano – una tappa così te le distrugge – ma Cesare sa che deve dare ancora una spinta, e poi un’altra ancora. Non sente più nulla, se non il frastuono provocato dalle urla incitanti dell’ammiraglia attraverso la radiolina. Manca poco.


Ancora uno sforzo: sa di non avere più energie dentro, ma deve tirare fuori da sé l’impossibile, perché lì il possibile non è abbastanza. Alza lo sguardo. Tra lui e il traguardo non c’è più nessuno: è in testa. Ultime pedalate, le gambe si fermano, la mano destra lascia il manubrio e si alza, esultante. Era stato il più veloce, il più forte. Aveva vinto.

Per la prima volta nella sua carriera, a 31 anni, poteva alzare le braccia al cielo, ma non per la vittoria di un compagno. La vittoria stavolta era tutta sua. Cesare Benedetti aveva conquistato Pinerolo.

Potrà sembrare un paradosso, ma al mondo non esiste uno sport dove la squadra conti di più che nel ciclismo.

Non esiste un altro sport dove gli atleti cerchino dentro di sé i più profondi e nascosti rimasugli di quell’energia che si è convertita in pedalata nei centocinquanta, duecento chilometri già percorsi.

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Il ciclismo è un patto, un contratto fatto di parole, di sguardi tra otto esseri umani. In questo patto la maggioranza dà, sapendo che non riceverà nulla indietro. Anche in questo riconosciamo la bellezza della bici: c’è un altissimo grado di gratuità nel rapporto tra capitano e gregario.

Il gregario sa che deve dare tutto per il suo capitano, il capitano sa che dal suo gregario riceverà anche l’anima, se necessario.

Si tratta di un rapporto di profonda fiducia reciproca.

Se vince il capitano, vince la squadra.

Tuttavia anche per un gregario arriva quel momento in cui la squadra gli dice: “Vai!”. Forse ad alcuni
capita molte volte, ma per altri invece le occasioni sono poche, e quindi oggetto di sogni.
Cesare, il 23 maggio 2019, ha sentito alla radiolina quel “Vai!” ed è andato, più veloce di tutti: il sogno era finalmente realtà.

Cesare Benedetti (3 agosto 1987, Rovereto) esordisce come professionista nel 2010 con il team tedesco NetApp (al tempo Continental team), che nel 2016 cambia nome in Bora-Hansgrohe. Ottiene la sua prima vittoria in occasione della dodicesima tappa del Giro d’Italia 2019, dedicata a Fausto Coppi (Cuneo-Pinerolo), battendo in volata i compagni di fuga.

L’articolo Il gregario: maestro di vita proviene da Nati Sportivi.

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Redazione MusaNews
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