Mariangela Gualtieri e la poesia “Nove marzo duemilaventi” diventata… virale

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Paradossi dei nostri giorni dolorosi: il virus infuria e una poesia che ne parla diventa… virale. «Per fortuna c’è un contagio anche nel bene» osserva Mariangela Gualtieri, autrice di quel Nove marzo duemilaventi che – intercettando un comune sentire – ha avuto un boom di condivisioni sui social.

È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.

«Forse compito di un poeta, soprattutto nell’emergenza, è ridire il già detto, ma dirlo con la lingua del presente. Ciò che in noi stava confuso nel verso si manifesta, viene alla luce» aggiunge lei, già poeta di culto («Preferisco poeta a poetessa: nella poesia i generi sono in un equilibrio tale da diventare inessenziali») con raccolte come Bestia di gioia e Quando non morivo (Einaudi), nonché cofondatrice a Cesena – assieme a Cesare Ronconi – del Teatro Valdoca.

Mariangela Gualtieri (foto Melina Mulas).

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I versi arrivano come un dono

Come è “sgorgata” Nove marzo duemilaventi?
Da giorni ricevevo telefonate piene di angoscia: «Scrivi, abbiamo bisogno di tue parole per questo presente». Fra gli altri, c’erano gli amici di Doppio Zero (una rivista culturale on line, ndr). Ma i versi arrivano come un dono, non ci si può imporre. Poi la mattina del 9 marzo mi sono alzata, colma di quella strana inquieta urgenza che porta alla precipitazione poetica.
Nel caso delle altre sue poesie la genesi è diversa?
È sempre misterioso e sorprendente l’apparire di un verso. Certo in questo caso particolare c’era una richiesta che mi toccava, mi confondeva, ero sorpresa perché non mi era mai capitato che qualcuno mi sollecitasse. E mai avevo reso pubblica poesie due ore dopo averla composta. A volte dopo qualche giorno svaporano e non resta più nulla di ciò che ci era apparso al momento della scrittura. È stato un azzardo ed ero certa che me ne sarei pentita, ma c’era in quei giorni un grande silenzio, solo la voce allarmata dell’informazione e nessuna parola in soccorso. Per fortuna quei versi hanno mantenuto la loro intensità ed hanno trovato larga e commossa consonanza.

“Sii dolce con me, sii gentile”

«E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano». Quali sono le “pepite” più importanti che possiamo trovare?
Non ho una ricetta che valga per tutti. Per me sono un fecondo non fare, una lentezza che aspettavo da tempo, il silenzio – nel quale come dice Simone Weil si accumula potenza – ma anche un fare semplice, come fare il pane o pulire la casa. Lasciarmi pungere da tutto quello che adesso manca – facce care, libertà di spostamento, nuovi libri cartacei – e far crescere la gratitudine per tutto ciò che spesso davo per scontato.
«Sii dolce con me, Sii gentile. È breve il tempo che resta»: questi suoi versi anni fa ci avevano già “dato la sveglia” sull’importanza di mettere cura nelle relazioni.
Qualcuno mi ha detto che in Cina sono molto aumentati i divorzi. Io vivo in campagna, in un luogo isolato e selvatico, ma penso a chi abita nei piccoli appartamenti affollati del mondo. Per alcuni la reclusione è una grande e difficile prova e quel che fa la differenza è ovviamente se ci sono persone care contagiate. Il “sii dolce con me, sii gentile” vale sempre, e vale per tutto, non solo fra umani, anche fra noi e tutto ciò che ci tiene in vita.

Marinagela Gualtieri ritratta da Melina Mulas.

I temi ambientali le sono cari da sempre.
Forse piano piano la smetteremo col nostro antropocentrismo, noi al centro di tutto l’universo o noi coscienza del pianeta. Non possiamo più vederla in modo così superbo e ristretto. Penso a Ungaretti: «Il mio supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia». L’armonia pare spezzata, il patto fra noi e la terra, fra noi e gli altri organismi viventi, e fra noi e i nostri morti, dai quali adesso non possiamo congedarci con cura, e così perdiamo la loro grande lezione di pietà e trascendenza.

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“La gioia è la preghiera più alta”

Il rapporto con il trascendente era ormai in secondo piano.
Adesso mi pare di cogliere una generale tensione alla preghiera, ma chi non aderisce a un culto non sa come pregare, o forse i modi che ci hanno insegnato sono depotenziati e sembrano privi di efficacia. Allora penso che il silenzio sia la mia preghiera, e l’attenzione, e la poesia, la gratitudine, la gioia. E poi ballare e cantare: se ballo o canto, è tutto il corpo che prega, così mi pare. Ho scritto che «forse la gioia è la preghiera più alta», e ne sono convinta
Ma uno la gioia se la può dare?
Io la imparo dai piccoli, dai cuccioli, dal grande aperto del mondo che chiamiamo natura e ora non possiamo frequentare. I bambini, queste nostre divinità domestiche aspettano da sempre la nostra attenzione calma, e questo è un tempo buono per stare pienamente con loro, educarli, condurli fuori dalla banalità, dall’ordinario, osservarli, guidarli nella conoscenza di sé e del mondo, non riempirli di nozioni – che è la cosa più facile – ma farli innamorare, appassionarli, stare con loro senza un tempo continuamente interrotto. E imparare da loro. Spero, appena si allenterà questa stretta, si trovi un modo per farli uscire all’aria aperta.


La tristezza fertile

E come rendere “fertile” la tristezza, lo smarrimento?
Ognuno ha le proprie strade. Per me tenere il cellulare e tutto il resto spento per metà giornata, stare in silenzio e non cadere in quella fame assillante di notizie, farmi bastare un telegiornale della sera è già come edificare un mio spazio di all’erta profonda. Frequentare le pagine di poeti e filosofi che amo è un altro modo. Stare vicina al dolore di tutti.
La poesia non è un po’ un “lusso”?
La poesia oltre a contagiare per via di un’aumentata vitalità consola, è consolante (e non consolatoria!), due braccia che nel buio del mondo sollevano un corpo piccolo e lo salvano da quel terrore che tutti abbiamo attraversato. Lo salvano, lo rassicurano come solo l’amore sa fare. La poesia dà da mangiare a una parte di noi molto denutrita ora, ed è la parte più importante, da cui dipende il nostro equilibrio, la nostra intensità di vita, la nostra comprensione di noi stessi, degli altri e dell’altro da noi. Leopardi ci dice che la poesia «ci rinfresca e ci accresce la vitalità», e ha parole di vera felicità quando parla del comporre versi «il miglior tempo ch’io abbia passato in vita mia». La poesia ci dà le parole per celebrare la vita, nei suoi molti aspetti, cantarla esattamente; ciò che in noi stava confuso nel verso si manifesta, viene alla luce.

 

Le Muse danzanti

«Un comune destino ci tiene qui… O tutti quanti o nessuno». Sicura che ci siano segnali di consapevolezza?
A me sembra sempre più forte il richiamo a questo comune destino. Siamo una piccola specie appena comparsa sul pianeta, siamo davvero l’animale di Darwin, o la “scimmia nuda” di Desmond Morris. Di chi se ne va in giro ritenendo di essere diverso, o furbo o immortale, che dire? È un atteggiamento di presunzione, egoismo e sgraziataggine di cui alcuni politici sono maestri.
Nel nuovo scenario, che ruolo hanno le qualità femminili?
Forse è proprio il sacrificio millenario dell’energia femminile che ci ha portati alla disarmonia attuale. Una mancanza di grazia e di cura. Mancanza di accoglienza e di compassione, di attenzione all’altro da noi. E anche una mancanza di leggerezza – le Muse sono danzanti, io non lo dimentico. Solo da pochissimo e in una piccola parte di mondo il femminile comincia a trovare espressione. Questa è una cosa che andrebbe festeggiata ogni giorno perché è un gran bene per il riequilibrio di tutta la nostra specie.

Ha sempre amato in modo particolare la poesia sin dalla scuola?
Sì, sempre: è sempre stata una preziosa alleata, come la filosofia. Ma ha in più la musica e l’esplorazione di territori che sono al di là della ragione. Il poeta si sporge verso un inatteso dal quale a volte non riesce a fare ritorno, forse per questo Heidegger li considera  “i più arrischianti”. La lingua poetica mi ha sempre colpito perché – anche quando non capivo razionalmente – c’era un’altra comprensione. La poesia nasconde e rivela. L’ho sempre colta come musica, nel suo incanto fonico, e anche come forma di energia.

La lingua delle nonne

Lei parla di verità alte con un lessico mai aulico. C’entra l’origine romagnola?
La mia lingua madre viene dalla mescolanza della lingua abbastanza colta di mia mamma col dialetto delle mie nonne. Spesso quando scrivo è come se le nonne fossero con me, in me, con le loro bocche sdentate e piene di pane.

La spiritualità in lei che “forma” prende?
Ho in mente un pensiero di Marina Cvetaeva: «L’anima che per l’uomo comune è il vertice della spiritualità, per l’uomo spirituale è quasi carne». Mi pare che ogni cosa tenga stretta in sé una soglia enigmatica. L’arte – nel mio caso la poesia e il teatro – è l’ambito in cui si esplora quell’enigma, ci si avvicina ad esso. Ma forse il gioco è che più ti avvicini e più quell’enigma si allontana, come insegnano Eraclito e Giorgio Colli. Considero tutta la poesia che amo come sacra scrittura.

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