Ho le bacheche intasate di «dopo» nel limbo social in cui fluttiamo smarriti. C’è chi pretende una data, impaziente, e lo abbina al «quando», chi rimugina sui tempi della felicità perduta, non colta, forse, o colta poco, sabbia tra le dita, occhi altrove, chissà dove, chi non vede l’ora di tornare al «prima», spavaldo: «Voglio riprendermi la mia vita», ho letto da qualche parte una sera tardi.
Prima e dopo, indissolubili. Due vocali canterine da una parte e quella o chiusa dall’altra, che avvinghia la parola all’incertezza del futuro e lo fa cupo, ma solo perché sconosciuto. Si traccerà una riga quando tutto questo sarà ricordo, una riga che sarà più o meno netta a seconda di come si intende il mondo, di cos’è essenziale. Perché se l’essenziale è l’aperitivo «dopo» sarà solo il giorno del «finalmente», e questo «oggi» una parentesi indefinita che col tempo andrà a perdersi nei ricordi sbiaditi di una reclusione annoiata. Bloccati in questo inatteso, aspettiamo, ognuno a suo modo, qualcosa, tra ansie, speranze e ritmi nuovi, ormai fatti abitudine, quasi. È un tempo strano, rubato, ché niente è davvero fermo, sospeso.
Lo avevo già vissuto, da sola, in un’altra stagione, e ora che si è fatto collettivo ha un sapore diverso, però so, capisco quella ribellione che vede le persone uscire «nonostante», mentre si muore, pur non condividendola. Il naso schiacciato su un vetro a spiare il mondo fuori, che va. Così è stare fermi mentre si vorrebbe solo correre, avvilente, sfiancante, gonfia di rabbia, impotenza. Il giorno del «quando» ci troveremo in una casella diversa da quella in cui eravamo «prima», un punto sconosciuto sulla ruota della vita. A qualcuno verrà in mente l’idea del «recupero». Sfidante. E molti ci proveranno. Non sembra complicato, all’inizio. È solo una corsa a perdifiato, forsennata, avida di giorni, notti, vita, un bulimico bisogno di fare. Salgono i ritmi, si fagocitano le esperienze, per riappropriarsi di quello che in un modo o nell’altro, per circostanze indipendenti da noi, ci è stato sottratto. Non è la strada giusta, anche se sono convinta che per rendersi conto di quanto sia illusoria vada percorsa, almeno per un po’.
Il segreto vero del «dopo» è un tempo nuovo, tutto proprio. Perché reagire ai frontali più o meno traumatici che la vita riserva senza sconti a tutti è, prima di tutto, ricostruirsi, forse è per questo che trovo banali domande del tipo: «Quale sarà la prima cosa che farai?». Conterà chi saremo diventati, non cosa faremo. Le tracce delle fratture possono renderci migliori o peggiori, ma inevitabilmente restano, cicatrici. Accettare il perduto e trovare il nuovo in quello che ci sarà dato vivere è la via giusta, anche se qualcosa del nostro «prima» se ne sarà andato, nelle settimane in cui ci siamo fermati, a osservare il mondo con il naso schiacciato su quel vetro, con fuori la primavera e il cielo azzurro come non lo si vedeva da tempo.
Il «dopo» sa essere un tempo rivelatore. Insegna la meraviglia, a vedere le cose come per la prima volta, fa fluire il superfluo, spinge a non lasciare andare i sogni, e nei silenzi di questi giorni inattesi, fondamentale, a stare bene con sé senza aver paura di sé. La conquista più importante del «dopo» è proprio la cicatrice che ne nasce, io la chiamo, da quando è iniziato il mio personalissimo «dopo», la consapevolezza della felicità.
E voi cosa avere imparato? Com’è il futuro che vorreste?
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