Non avevo gioito nemmeno per i miei
diciott’anni, il fatto di entrare ufficialmente a far parte del mondo degli
adulti non mi ha mai entusiasmata. Mi sarei trasformata anch’io: avrei smesso
di vivere di sogni, sarei diventata concreta e responsabile e il mio spirito
creativo ne avrebbe indubbiamente risentito.
A ricordarmi, però, che i sogni è meglio
inseguirli con la macchina, fu mia madre, che aveva preso la patente molto
tardi e non voleva che ripetessi il suo stesso errore.
“Andrai a scuola guida e prenderai la
patente!” disse in tono imperante.
“Mamma, io con le marce non ci capisco
niente…”
“Devi ascoltare il ruggito del motore: è
lui a dirti quando cambiare, basta premere la frizione e il resto è fatto.”
“Non è il pedale della frizione che mi
preoccupa, sono gli altri due, freno e acceleratore che mi confondono.”
“Questo è un problema figlia mia…”
“Anche papà si è rifiutato di farmi da
istruttore: qualcosa vorrà dire, ti pare?”
“Ascolta: dopo aver passato l’esame di
teoria, farai qualche lezione di guida in più e prenderai la patente la patente
come gli altri.”
La sua premonizione si avverò: qualche
mese più tardi presi la patente, ma il numero delle lezioni di guida —
quelle in più che lei stessa mi aveva suggerito — erano state tante, tante di
più.
C’era chi era riuscito a passare l’esame
di guida con appena dieci lezioni, chi con quindici, la maggior parte dei
ragazzi con cui avevo iniziato se l’era cavata con una ventina. Io avevo
battuto il record della regione Emilia Romagna: dovetti farne sessanta per
prendere la patente. Due fogli rosa, due istruttori e due macchine diverse. E
la mattina dell’esame, quando mi chiesero la partenza in salita, su per una
strada di montagna, soffrendo di mal d’auto, chiesi all’esaminatore di scendere
a vomitare prima di effettuare la manovra.
Sarà stata la tensione.
Me l’ero sudata quella patente, più di
tutti gli altri, e mi sarei fatta rispettare, sempre.
Oggi, che guido da più di vent’anni,
quando sono al volante mi sento un giustiziere: non c’è giorno in cui non
pensi ai neo patentati e alle loro difficoltà, e suono il clacson se chi
mi accorgo che qualcuno commette infrazioni: è così che succedono gli
incidenti, ma chi ha preso la patente da un giorno non lo sa. — Anche se ha
fatto sessanta guide.
L’ho sperimentato sulla mia pelle, ho
tamponato tre volte e tutte e tre le volte ho tamponato delle Ford.
Le Ford in generale mi portano una sf**a
pazzesca — mi scuso in anticipo con i lettori che hanno una Ford — ma negli
anni, ho imparato che è bene mantenere anche più di una distanza di sicurezza
da una Ford, specie se mi precede.
Prima del Covid19, i battibecchi per
strada erano all’ordine del giorno, le bimbe che di solito sono le mie compagne
di trasferta in auto, non le vivono benissimo, e non per il rischio di avere
un’incidente, quello è niente rispetto alle mie reazioni esagerate nei
confronti dei pirati della strada.
“Disgraziato! Guarda, guarda, tu dimmi
se si può essere può essere così spericolati! Questo la patente l’ha presa per
posta!
Gira quel volante! Sai fare una
curva?
Il semaforo ha solo questi tre colori,
pensi di partire?”
E siccome tra gli automobilisti non c’è
possibilità di confronto verbale, ci piace esprimerci ugualmente con metodi
alternativi. Uno su tutti: il linguaggio dei segni.
Giunte alla fine della tangenziale, al
grande raccordo, alle bimbe viene la pelle d’oca. Una volta ho beccato Carola
farsi il segno della croce.
“Scommettiamo che adesso questo pazzo
che sta a destra mi taglia la strada per girare a sinistra? Cosa vi avevo
detto?
“Ah ragazze! La prudenza non è mai
troppa… questa è proprio una giungla d’asfalto…” dico asciugandomi la
fronte come un campione di Formula Uno.
“Mamma attenta: una Ford!”
Deve essere per forza incompatibilità di
carattere.
Ora la mia auto è in garage, sul parabrezza ci ho messo un cartello con scritto: #IORESTOINGARAGE #ORASONOPIUTRANQUILLO.
Illustrazione di Valeria Terranova
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