Moda e Coronavirus, cosa è successo fino a ora

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L’Italia ha appena sorpassato il mese di lockdown e il Governo Italiano ha annunciato la proroga delle misure di emergenza fino al prossimo 3 maggio. Intanto, la moda è praticamente ferma.

Le fabbriche e i negozi sono chiusi (riapriranno il 14 aprile solo quelli di abbigliamento per bambini), la vendita online rappresenta ancora una piccola percentuale del fatturato del settore, gli eventi di giugno (Pitti Uomo e Milano Moda Uomo) in cui si sarebbero dovute presentare le collezione maschili per la primavera estate 2021 sono stati rimandati e unificati con la fashion week di settembre, le riviste non possono produrre i contenuti fotografici tramite i quali interpretano e raccontano le tendenze in arrivo, dai fotografi agli stylis, i social media rappresentano il banco di prova per tutti. A preoccupare maggiormente sono le possibili conseguenze per gli autonomi dell’industria creativa e dall’artigianato.

Il coraggio di fermarsi e la necessità di ripartire

Le prime settimane di emergenza avevano visto gli addetti ai lavori e gli appassionati aprire molte questioni sui possibili cambiamenti da attuare per fare fronte alla situazione e per cercare di risolvere una serie di problemi già esistenti. Fra tutti Francesco Tombolini, Presidente di Camera Buyer Italia, aveva chiesto di valutare il “riciclo” della primavera estate 2020 per l’anno seguente, in modo da dare respiro a quei rivenditori che si ritroveranno con un grande carico di invenduto e provare a rallentare l’intero sistema. 

Ora invece le previsioni economiche allarmanti e la situazione di chiusura totale prolungata portano a una sola esigenza: ripartire il prima possibile. Si è fatto portavoce di questa esigenza Carlo Capasa, Presidente di Camera Nazionale della Moda Italiana, che l’11 aprile ha inviato una lettera aperta al Governo.

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La lettera aperta di Carlo Capasa per la riapertura della filiera

«… Siamo il primo Paese in Europa per la produzione del tessile abbigliamento e accessori, staccando di 30 punti la Germania e di 34 la Francia. (…) Dobbiamo proteggere questa industria perché è la più strategica che abbiamo in Italia. Per proteggerla dobbiamo anche capirne i meccanismi: siamo unici perché mettiamo insieme artigiani, piccole imprese, medie aziende e grandi brand, li facciamo lavorare fianco a fianco guadagnandoci in creatività, flessibilità, qualità, cura del prodotto e sostenibilità. Poi siamo anche bravi a vendere, visto che i nostri showroom e le nostre boutique diffondono quasi tutti i brand più importanti del mondo. Consentire la chiusura di alcune aziende, anche piccole, anche artigiane creerebbe uno strappo in quel tessuto unico che la nostra filiera rappresenta. (…)

La moda è un’industria stagionale, riparte ogni sei mesi con nuove collezioni che vanno presentante e vendute e consegnate. (…) Se non riapriremo le nostre aziende entro il 20 di aprile non avremo i tempi tecnici per consegnare le produzioni autunno inverno 2020/2021 che vanno inviate entro luglio in tutto il mondo. Non potremo produrre le collezioni primavera estate 2021 per la vendita di giugno che dovrà essere fatta anche a distanza, ed è un momento obbligato per consentire poi la produzione e la consegna ai negozi di tutto il mondo entro dicembre/gennaio, non potremo avere in tempo le collezioni per le sfilate di settembre.

La domanda è: siamo disposti a perdere la nostra industria simbolo? Sappiamo che dovremo essere cauti, mantenendo un equilibrio corretto tra salute ed economia. (…) Possiamo salvaguardare ancora di più le persone a rischio, possiamo usare dei criteri diversi in alcune aree geografiche, ma se vogliamo continuare ad avere un’industria della moda in Italia dobbiamo riprendere da subito a produrre anche la Moda. Con l’orgoglio di farlo non solo per noi ma anche per le future generazioni di questo nostro meraviglioso Paese».

La ricetta di Armani

Grande protagonista della conversazione delle ultime settimane è Giorgio Armani che, dopo aver scelto di sfilare a porte chiuse nell’ultimo giorno di Fashion Week, aperto l’ondata di donazioni e quella di riconversioni delle fabbriche, lo scorso 2 aprile ha messo nero su bianco la necessità di un ripensamento delle tempistiche con le quali abiti e accessori sono prodotti e venduti. «Credo che lo stato attuale delle cose, con la sovrapproduzione di capi e il disallineamento tra il tempo delle collezioni e quello della stagione commerciale, sia davvero assurdo». E ad annunciare un primo, piccolo passo: il ritardo dei saldi. «Vedo questa crisi come un’opportunità per rallentare e riallineare tutto; per definire un nuovo e più significativo panorama per la moda. Ho lavorato con il mio team per tre settimane in modo che, dopo il blocco, le collezioni estive rimarranno nelle boutique almeno fino all’inizio di settembre, com’è giusto che sia. E così faremo d’ora in poi». Il secondo passo, confermato nella stessa intervista, è quello della valutazione nell’acquisizione dei fornitori messi in difficoltà dalla crisi, «in modo da rivalutare e valorizzare la filiera, importantissima nel nostro modello di business».

Chi vende, cosa vende

Chi riesce a muoversi nelle complicate dinamiche della logistica, soprattutto a livello internazionale, ha visto crescere alcune categorie di abbigliamento e accessori (e altre precipitare). Nell’impossibilità di uscire, sale la richiesta di leisurewear e athleisurewear, e cioè i look comodi e quelli per fare attività fisica.

Le ricerche di Lyst, uno dei più conosciuto aggregatori di ecommerce del settore moda, dicono che in Italia il capo più ricercato della settimana passata è la T-shirt con il cuore di Comme Des Garçons Play, seguito dalle felpe di marchi come Palm Angels, Marcelo Burlon, Off-White, GCDS, Heron Preston e Balenciaga, e dalle sneakers di Alexander McQueen e Off-White. Crescono a livello globale le ricerche per orecchini e per biancheria intima, rispettivamente del 40% e del 9%. 


Come si è spostata la comunicazione

I marchi hanno saputo rispondere velocemente alla mutata richiesta del mercato modificando le loro vetrine di marketing (homepage del sito, newsletter, social media) e mettendo in evidenza le categorie di prodotto più ricercate. Dando prova di una certa attitudine all’ascolto del cliente e di una capacità di adattamento forse introvabile in alti settori. 

E non si sono fermati qui. In poche settimane i loro account Instagram sono diventati lo spazio digitale dove intrattenere i fan con contenuti fedeli al proprio DNA, ma anche sperimentali e collaterali. Bottega Veneta, Loewe, Salvatore Ferragamo, Loewe, Valentino, Alexander McQueen, Louis Vuitton, Benetton, Levi’s, Swatch, Paul Smith, Nike, Jimmy Choo, Chanel… Non c’è brand che si sia tirato indietro nel trovare soluzioni alternative, veloci ed efficaci. Cogliendo il momento per focalizzarsi su un tipo di marketing, il branding, spesso trascurato in favore di un bombardamento del prodotto.  

Anche gli uffici stampa stanno lavorando per trasformare un lavoro che solitamente si struttura in appuntamenti in showroom, invio e ritiro di capi per gli shooting, organizzazione interviste ed eventi di ogni tipo. È Karla Otto, con sede a New York, Milano, Londra e Parigi, a dare il via il prossimo 16 aprile ai digital press day, versione Instagram dell’appuntamento tramite il quale i fashion editor rivedono i capi della stagione successiva per decidere come raccontarli ai propri lettori.

Su Instagram, chi scende e chi sale

Sui social gli altri attori protagonisti sono gli influencer, ora sotto esame. Specialmente quelli “di moda”, più abituati a utilizzare Instagram come una vetrina per i propri look che a interagire con i proprio follower. L’esempio più lampante è quello di Arielle Charnas, ex blogger, ora influencer da più di un milione di follower che ha raccontato con un post di essere positiva al virus.

Poi, però, ha anche documentato una serie di azioni che hanno scatenato l’ira di chi la segue, dall’aver usato le sue connessioni per fare il tampone alla scelta di lasciare New York (già in piena emergenza) per gli Hamptons. Proprio la fuga dalla città – immortalata con tanto di maxi camper anche da un’altra influencer newyorkese, Naomi Davis – ha provocato l’atto più temuto da chi dei social ha fatto un lavoro: il defollow. Per Arielle non sono bastate le scuse in un post. La catena di grandi magazzini Nordstrom, con cui collaborava da tempo, ha preso le distanze: il business sui social dipende molto da ciò che si sceglie di condividere.

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Dall’altra parte però c’è l’esempio di best practice firmato Chiara Ferragni che ha saputo ben guidare i suoi quasi 20 milioni di follower in un periodo di smarrimento per molti. Dalla raccolta fondi per supportare l’ospedale San Raffaele di Milano – con cui sono stati raccolti 4 milioni e mezzo di euro – a una continua ed efficace campagna di informazione con l’hashtag #iorestoacasa, dalla virata casalinga (e decisamente più ironica rispetto ai suoi standard) dei contenuti sponsorizzati al debutto su TikTok, il comportamento social della cremonese è da manuale (con tanto di ammonimento per l’amica/star Kendall Jenner che ha diffuso dati errati sull’emergenza). 

Il problema delle produzioni

Se per le riviste online e le declinazioni digitali di quelle cartacee l’approccio verso la community risulta più immediato (ed era già stato molto sperimentato), la carta affronta l’impossibilità di lavorare a quelle produzioni fotografiche che animano le pagine di moda. I primi numeri prodotti in stato di emergenza sono una nuova dimostrazione di quella creatività pro attiva che da sempre rappresenta la benzina del settore. Un esempio tra tutti, le copertine del bimestrale britannico i-D che vede le modelle del momento in una serie di scatti immortalati dal fotografo Willy Wanderperre attraverso Facetime

Alla reattività di chi ci lavora non corrisponde quella del Governo italiano (ma neanche quella degli stranieri) nella tutela di fotografi, modelle, stylist, truccatori, hairstylist, producer, casting director che sono notoriamente inquadrati come lavoratori autonomi e che in questo momento sono in stop forzato dal lavoro: molte altre riviste al momento stanno lavorando con materiale già prodotto in precedenza, oppure con le immagini fornite dai marchi. C’è grande incertezza anche su come e quando le produzioni ricominceranno. Dagli Stati Uniti infatti arrivano le prime notizie di licenziamenti in un’editoria già corrosa nel tempo e ancora in gran parte dipendente dalle inserzioni pubblicitari. Se a prima vista un momento come questo – in cui si tende a informarsi, e in generale a leggere di più – dovrebbe corrispondere a un periodo di buona salute dai giornali, il drastico ritiro della pubblicità, causato dalla contrazione dei budget di comunicazione e marketing dei marchi, potrebbe causare non pochi problemi.

Protezione per i più piccoli

A rischiare molto in questa situazione sono anche i giovani designer emergenti che già per imporsi nel panorama hanno dovuto investire moltissimo e in un mercato in cui i ritorni economici si vedono a molti anni di distanza dal debutto. In Inghilterra, dopo che il British Council ha previsto che il 35% delle etichette emergenti del Paese fallirà prima della fine dell’estate se non sarà attuato alcun intervento, Jefferson Hack, editor-in-chief di An Other Magazine, ha esortato con un editoriale tutti i creativi sul territorio ad approfittare dell’abbonamento reso gratuito per la Creative Industries Federation, che si occupa di fare pressioni sul Governo per migliorare il sistema di protezione dei liberi professionisti. In America Anna Wintour, direttrice di Vogue, e Tom Ford, Presidente del CFDA, hanno lanciato A Common Thread, programma che offre sovvenzioni per le piccole imprese di moda che ha già raccolto 3 milioni di donazioni (un milione dei quali da Ralph Lauren). 

Business of Fashion, invece, lancia la sfida ad Amazon. Il colosso di Jeff Bezos sta tentando da anni di conquistarsi un posto di rilievo tra i rivenditori del lusso (e dal 2018 è il maggior venditore di abbigliamento negli Stati Uniti) e a inizio marzo ha presentato il programma tv Making The Cut (disponibile su Amazon Prime Video), reality che vede sfidarsi giovani designer per conquistare il premio di 1 milione di dollari e la possibilità di creare una collezione low cost che sarà acquistabile in tutto il mondo su Amazon Fashion. BoF si chiede,«Ora che i giovani designer di tutto il mondo stanno affrontando una sfida esistenziale, Amazon non potrebbe venire in loro soccorso istituendo una piattaforma e un fondo associato per supportare un universo di etichette indipendenti in difficoltà, collegandole con i suoi milioni di consumatori digitali e affermandosi rapidamente come una delle migliori destinazioni moda del mondo?»

Conseguenze disastrose

Fuori dall’Italia – ma non per questo ci coinvolge meno – c’è quella che molti hanno definito la “prossima crisi umanitaria“. Se per diverse ragioni (non ultima, quella per la quale meno vestiti corrispondono semplicemente a meno inquinamento) la richiesta di un rallentamento del sistema moda sembra una soluzione doverosa e sensata, dall’altra la cancellazione degli ordini e la sospensione dei pagamenti da parte di brand del prêt-à-porter e del fast fashion ha già avuto tragiche conseguenze sui lavoratori dei Paesi produttori, concentrati nel sud est asiatico. Questi non sono direttamente dipendenti dai marchi, ma lavorano per società terze con sede in Pakistan, Cambogia, India, Vietnam, Bangladesh.

E le stesse società davanti a ordini cancellati e pagamenti sospesi non potranno fare altro che licenziare: il Worker Rights Consortium, che monitora i diritti dei lavoratori a livello globale, stima che 50 milioni di persone siano impiegate nel settore dell’abbigliamento, tessile e calzaturiero, di cui molte sono donne che rappresentano il principale stipendio delle loro famiglie. Alcuni grandi marchi del fast fashion, in primis H&M e Zara, già messi sotto pressione in passato per il trattamento dei lavoratori nei Paesi più poveri hanno assicurato che avrebbero ritirato e pagato gli abiti e gli accessori già ordinati (prodotti o in produzione) e che non avrebbero rinegoziato i prezzi. Ora mancano tutti gli altri.

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