A me non è mai piaciuto limitarmi ai fatti.
Ha semore dato gusto dargli interpretazione, a volte anche fin troppo soggettiva.
E’ per questo che non sono un giornalista e che mi diverto da pseudo blogger.
Racchiudere 12 mesi in una lista di fatti, più o meno condivisi per rilevanza e valore, lo lascio fare a chi sa scrivere e raccontare meglio di me. A chi lo fa per mestiere ed è certamente più attento del sottoscritto.
Il 2020 è stata una corsa campestre. Clima anglosassone, tanti partecipanti, percorso insidioso, gara pericolosa. Dove non tutti arriveranno, dove gli incidenti sono dietro una curva che sembra semplice, dove non sempre vince il più forte ma spesso il più bravo.
Io parto dall’arrivo di Ibrahimovic e dalla sua incredibile capacità di “spostare gli equilibri”. Se avessimo avuto dubbi sul fatto che un grande giocatore, una grande personalità, ingombrante, provocatoria, irriverente, potesse migliorare un collettivo e aumentare la qualità di un gruppo, Zlatan ce li ha tolti tutti. E se la sua unica sfortuna è stata quella di nascere nel periodo storico di Messi e Cristiano Ronaldo non possiamo non inserirlo nel lotto dei migliori, in quelli che avrebbero potuto giocare in ogni epoca.
Ci giriamo e qualche lacrima esce all’addio di De Rossi, che lascia una scelta romantica per un’altra, che lascia il calcio e ci fa sentire un po’ orfani del suo carattere. Perché De Rossi è stato una generazione vittima del cambiamento attanagliata ad un passato bello e schiava di un futuro troppo veloce.
Poi il vuoto, la buca che non ti aspetti, il tonfo. Kobe Bryant cade con un elicottero mandando in apnea un intero pianeta che saluta parte della mitologia della pallacanestro ed il sorriso ambizioso e determinato di un fuoriclasse.
E prima della tempesta un raggio di sole lieve, ma pur sempre un raggio, ce lo da l’Atalanta e il suo modo coinvolgente di fare calcio, più vecchio che nuovo, più anni ’90 di quello che qualche scienziato ha voluto descrivere come innovazione.
Silenziosamente durante i primi kilometri arrivano tuoni, fulmini, virus, chiusure e confusione.
La corsa sembra risentirne, il disordine sembra prevalere ma “the show must go on”. E ti accorgi che Freddie Mercury è più attuale che mai, la senti mille volte e con voce strozzata torni ad esultare davanti a nuove Regine delle Nevi, Federica Brignone e Dorothea Wierer che portano in Italia Coppe che mancavano da troppo tempo, che sanno di romanticismo e di orgoglio.
Ma la Corsa non è più la stessa. Si sceglie il rinvio delle Olimpiadi, degli Europei di Calcio, delle massime competizioni Nazionali ed internazionali, si svuotano gli Stadi, si chiudono le palestre, si demonizza il contatto, si istituzionalizza la mascherina, si nascondono i sorrisi.
Sorrisi che pensiamo di perdere all’ennesimo incidente di Alex Zanardi, con la sua handbike, che ci tiene ancora sospesi tra ciò che rappresentava e ciò che sarà. Sospesi ma pieni di speranza, quella che esce fuori dalla sua storia e dal suo coraggio, in attesa di una nuova vittoria, nella vita.
Poi ti accorgi che fermarsi è perdere.
L’NBA con le sue spalle forti e le sue visioni lungimiranti creano la bolla, il teatro, la soluzione per continuare lo spettacolo. E Lebron James ne utilizza il palcoscenico per rendersi protagonista dentro e fuori dal campo, assicurandosi presente e futuro.
Il ritmo della corsa aumenta, siamo oltre metà, e Duplantis decide di fare i conti con la gravità riscrivendo il record del salto con l’asta sfidando gli Dei dell’Atletica che sembravano sopiti e martiri del tempo.
Quello che si è preso invece Filippo Ganna con la sua bicicletta andandosi a prendere lo scettro d’oro del cronometro mondiale con maglia multicolore e sfumature rosa.
Ma in questo anno poco elegante nello sport più elegante serve qualche certezza per non perdersi per strada e ci pensa Rafael Nadal a ricordarci che sulla terra rossa francese corre solo lui, vince solo lui, tra lampi azzurri giovani e prospettici.
Ma ciò che ha reso la Corsa unica, purtroppo, sono stati gli addii.
Gli ultimi saluti di protagonisti dentro e fuori il campo.
Sandro Mazzinghi, pugile e campione del mondo, simbolo di un’Italia lontana e caparbia, lottatrice e indomita nella quale la boxe si rappresentava e coinvolgeva.
Diego Armando Maradona, l’uomo idolatrato e carnefice di se stesso, il Calcio nella sua essenza popolare e partecipata, innamorata, passionale, coinvolta e disordinata.
Paolo Rossi, l’attaccante di un paese intero e rappresentante esposto di un sogno ad occhi aperti che si realizza, di un successo che si trasforma in una rinascita, in un riscatto.
In questi addii ci metto anche la Virtus Roma di basket, ed il suo fallimento. La Sconfitta di un sistema sportivo che miete una nuova vittima e che deve sbrigarsi a trovare nuove soluzioni partecipate se vuole vivere e non sopravvivere.
Ma a questa corsa è mancato anche il fascino di Sean Connery ed il genio di Gigi Proietti, due rifugi sicuri fuori dalla gara, due garanzie di magia fuori dalla malattia dello Sport.
Abbiamo scelto anche la Colonna Sonora e non poteva che essere quella del maestro Ennio Morricone.
Il traguardo è vicino, il nastro sta per essere tagliato con qualche vinto e nessun vincitore.
La corsa è stata dura, estenuante nei ritmi, ci ha messo a dura prova nel fisico e nella mente, ci ha reso più fragili e al tempo stesso più pronti.
Ci ha detto cosa dobbiamo non essere e dove possiamo arrivare.
Ci ha ricordato che lo Sport può essere vinto solo da se stesso.
Ad maiora.
PS: una buona notizia c’è stata, la bicicletta di Marco Pantani è tornata a casa, ve lo volevo dire.
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