“Pretty woman”, i 30 anni della commedia romantica con Julia Roberts e Richard Gere

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Trent’anni di Pretty Woman

. Fresco come allora? Sì. La distanza tecnologica non ha fatto deperire l’ultima commedia romantica veramente globale. Ne ha solo cementato la rilevanza. Era una favola nel 1990 e col tempo l’anno in cui è uscita è diventato sempre più un anno senza età, un’era indefinita come lo sono appunto le favole. E la storia di Vivian e Edward la storia di un principe e principessa nell’isola che non c’è contemporanea, Hollywood, che nella scioltezza del racconto a ogni passaggio televisivo non delude mai, raccogliendo milioni di telespettatori.

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Poi c’è il miracolo in fieri della nascita di una star. Perché la carriera di Julia Roberts ora è lunga e stratificata, mentre allora Pretty Woman era solo il suo terzo ruolo importante ma il primo in cui pur sconosciuta sembrava un’amica di vecchia data. Si chiama ottimo lavoro di casting, eppure quando l’aderenza al ruolo ha caratteristiche così esatte come Julia alla prostituta dal cuore d’oro il risultato ha del miracoloso. 

3000 dollari

Trent’anni dopo sappiamo anche tutto del film di Garry Marshall. Sappiamo che si sarebbe dovuto chiamare 3.000, la cifra con cui Edward “appalta” Vivian per 5 giorni. Sappiamo che la storia doveva essere qualcosa di molto più drammatico, altro che finale sulla scala antincendio. Sappiamo tutti i nomi di chi disse no al film: tre quarti di Hollywood tra cui gente che probabilmente ancora si sta mangiando le mani; che sul poster del film il corpo di Julia mica è il suo. Sappiamo ma facciamo finta di non saperlo.

Come facciamo finta di credere che una ragazza trasferita a Los Angeles non abbia mai sentito nominare Rodeo Drive né di quanto siano cattive le commesse, da Beverly Hills a Montenapoleone. Imparerà a sue spese, e la vendetta consumata presentandosi in negozio carica di acquisti è la scena che ripaga tutti noi poveracci dello shopping mass market. Poveracci che sognano la carta di credito di Richard Gere.

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«Quella gran culo di Cenerentola»

Trent’anni dopo, sebbene nel frattempo di inchieste giornalistiche autorevoli su storie simili a Pretty Woman nemmeno l’ombra, ci crediamo ancora. Quello che è successo a “quella gran culo di Cenerentola” sarà pur accaduto da qualche parte. Salvataggi del resto se ne fanno di continuo. E pure di sconfessioni. Si comincia con i buoni propositi, “fottere il prossimo per denaro”, e poi si finisce per baciarlo sulla bocca, e invece di fregarlo ci si mette nei guai. Se stessi e l’altro. (Finita la settimana di lavoro te ne vai. Non ci sarà continuazione. Magari ci si vede, magari no. Ma finire assieme, giammai.)

Bastano cinque giorni per fuggire via con una raccattata su Hollywood Boulevard? Sul gradino più basso? Se non a Hollywood, in che altro posto. In Ragione e sentimento Marianne Dashwood ci mette sette giorni a innamorarsi di John Willoughby: finirà male ma nel film di Ang Lee John guarda da lontano Marianne sposare il colonnello. In Pretty Woman invece come saranno andate le cose, Vivian e Edward alla fine si sposano?

Maria la secca

Trent’anni dopo chi se lo domanda ancora sbaglia bersaglio. D’accordo la limousine-carrozza ma è il viaggio quello che ha sempre contato. Dal makeover di Julia Roberts, come Cher in Stregata dalla luna, come il taglio gamine di Audrey in Vacanze romane, come Andrea nel Diavolo veste Prada, ai dettagli. E allora Vivian dalla strada a Signora che l’amica Kit ha paura di sgualcire; Vivian impacciata e sfacciata salvata più volte dalla fatina Barney, il direttore dell’albergo; Rachel la commessa buona che sa benissimo che gli zii non sono mai zii.


La sensazione che tutto andrà benissimo, nella vita di Vivian e nella nostra, alle prime note di Pretty Woman di Roy Orbison; la pizza che a un certo punto sbuca in mezzo agi abiti di Valentino; Maria la secca – nomignolo geniale – che non vediamo mai e a cui sfortunatamente non va bene come a Vivian; Kit al banco del Beverly Wilshire; gli ascensori con i divanetti; “c’è una banda” all’inizio della Traviata; le stronze lumachine.

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«E tu prenditi un giorno di ferie»

Trent’anni dopo si parla molto di più dei danni da superlavoro. Di vite che non si sanno godere un po’ di riposo, un giorno di ferie. Se ne parlava meno nel 1990, forse. In ogni caso nella vita di Edward, squalo che compra aziende per poi smantellarle, Vivian arriva come la gamba ingessata di James Stewart in La finestra sul cortile. Costretto, in parte, all’immobilità, Edward fa cose rivoluzionarie.

Cammina a piedi nudi sull’erba, legge Shakespeare, compra hot dog, finisce in uno di quei diner con moto parcheggiate davanti che nei film americani sono più fotogenici del ristorante stellato. Non basta, “io e lei viviamo nel mondo reale”, dice a Barney quando se va dall’albergo con i vestiti, e i soldi. Nel mondo reale Vivian avrebbe preso l’autobus per San Francisco, diventando poi un’agente immobiliare. In un film della Disney continuano invece a chiederci a quanto ammontasse la somma sfacciata che Edward spende per il guardaroba di Viv. 

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