Il quaderno dalla bellissima copertina e le agende scadute (e intonse) ci hanno aspettato. Sornioni, dentro un cassetto. Aspettavano che un bel giorno a colpi di pagine bianche sarebbero entrati nelle nostre giornate fatte di pane casereccio, videochiamate di gruppo, e pensieri nuovi. Raccontatevi, dai, ci dicono adesso: è lo stesso invito lanciato da questo giornale a cui in tanti stanno rispondendo. Chi con una pagina di diario e chi con una lettera.
Contro il caos, ordinare i pensieri
Scrivere, oggi più che mai, potrebbe avere un senso. «La conferma è l’arrivo di messaggi al nostro Osservatorio nazionale sulla scrittura: fin dai primi giorni dell’epidemia, persone di ogni età ci chiedevano di aiutarle a scrivere», racconta Duccio Demetrio, docente all’università Milano Bicocca di Filosofia dell’educazione e della narrazione, nonché fondatore della Libera Università dell’Autobiografia (lua.it) di Anghiari. «La scrittura autobiografica è stata da sempre una risorsa di auto aiuto e cura. Non esistono regole, ci si può anche permettere un lessico semplice e una sintassi malferma. Di base, la scrittura è una grande stimolatrice neuronale per la memoria ma ha pure una funzione sociale: nei momenti tragici ci “aiuta ad aiutarci” con lo scambio di riflessioni e sentimenti. Per tale ragione abbiamo ideato un progetto: inviate le vostre storie a [email protected] e le leggeremo al prossimo festival» precisa.
La scrittura è una terapia
Il pensiero corre alla letteratura nata in trincea, negli ospedali militari, o a quella firmata da Rigoni Stern e Fenoglio. Una trentina di anni dopo vengono pubblicati i primi studi sulla scrittura autobiografica (poi definita espressiva) condotti da James Pennebaker: il gruppo di studenti a cui era stato chiesto di descrivere il loro trauma e le emozioni provate aveva mostrato un calo dei disturbi psicosomatici rispetto a quelli che dovevano raccontare solo il trauma. Tra tutti, l’ansia. Non è una novità: la terapia breve strategica utilizza il “diario di bordo” per trattare gli attacchi di panico.
Seguire un ritmo aiuta
Ma chi si racconta oggi, magari, ha solo da gestire una trasformazione significativa della propria vita, non pensa di star male. «Parlare di terapia mi sembra improprio perché presuppone una malattia ed è una cosa che in un contesto medico viene recepita in modo passivo. Molta letteratura scientifica mostra invece come scrivere di eventi della vita migliori salute e benessere, aiuti infine a superare momenti difficili. La scrittura espressiva ha gli effetti di ogni “terapia” che implichi espressione ed elaborazione e ha il vantaggio di poter essere gratuita e autogestita. Naturalmente, se c’è un disagio psicologico esplicito scrivere non basta, occorre rivolgersi a un professionista» precisa Luigi Solano, psicanalista e autore di Scrivere per pensare (FrancoAngeli).
Bastano 20 minuti al giorno
«La tecnica più usata è quella ideata da James Pennebaker dell’Università del Texas, ovvero venti minuti al giorno di scrittura, per alcuni giorni consecutivi o anche con intervalli più lunghi, per esempio una volta a settimana. La scelta dell’evento è libera. Non è detto che focalizzarsi sulla pandemia sia utile per chi è già “ossessionato” dalla paura dell’infezione. Il principio generale è che la procedura si inserisca nella vita quotidiana con una sufficiente privacy: più è ritualizzata e più funziona. Si può anche scrivere per se stessi, come in un diario. Meglio non rileggersi a breve distanza di tempo per evitare di bloccarsi» conclude.
Prendere coscienza di se stessi
Era già successo con l’11 settembre: armati di carta e penna, gli americani avevano tentato di elaborare e superare il trauma del 2011. Qualcuno non ci è mai riuscito, altri hanno avuto bisogno della distanza dalle emozioni: accade in genere agli scrittori (Primo Levi, per esempio). Fernando Pessoa ha detto: «Se scrivo ciò che sento è perché, così facendo, abbasso la febbre di sentire».
Una cura di 21 giorni
Assunta Corbo ha ideato “il percorso dei 21 giorni” basato proprio sul diario della gratitudine: prendersi dieci minuti al giorno per scrivere le ragioni per cui siamo grati ci renderebbe più consapevoli e in pace (assuntacorbo.com). «Scrivere dovrebbe essere una pratica filosofica a cui ricorrere davanti a dubbi, speranze e desideri. Hanno scritto una lettera a se stessi Marco Aurelio nei Colloqui con se stesso e Arthur Schopenhauer in L’arte di conoscere se stessi» dice Sonia Scarpante, presidente dell’associazione La cura di sé.
Scambiarsi i testi aiuta
«Da quel giorno di ventuno anni fa in cui ho scoperto la mia malattia oncologica, la scrittura ha cambiato la mia vita. Facevo l’architetto, moglie di un medico e madre. Quel trauma chiedeva un nuovo senso alla mia vita e l’ho trovato scrivendo una lettera a un medico a cui non ero riuscita a esprimere le mie emozioni e le mie paure. Quel carteggio è diventato terapeutico e uno stimolo per affrontare altre tappe di conoscenza interiore. Scrivendo e condividendo possiamo imparare ad aiutarci gli uni con gli altri, è questa la base del mio Metodo Scarpante, applicato anche nei corsi per operatori sanitari, detenuti ed educatori» dice.
La lettera che non hai mai scritto
C’è anche un modo più semplice e diretto, ma altrettanto efficace, per rielaborare questo tempo sospeso: fare un elenco di buoni propositi, liste di ambizioni e sfoghi senza reticenze, appunti da riprendere in futuro. Farlo con la consapevolezza che non avremo mai più, probabilmente, tutto questo tempo per fermarci.
«Sono aumentate le richieste sui corsi che svolgo perché la gente ha più tempo per pensare al futuro. Mai come ora si è vista costretta a valutare la possibilità di realizzarsi in modi diversi» spiega Marilena Cremaschini, esperta in grafologia e psicologia della scrittura (marilenacremaschini.it). «Scienziati, studiosi, regnanti e nobili hanno da sempre scritto per organizzare il loro lavoro e lasciare una traccia ai posteri. Chi doveva lavorare non aveva il tempo. Io consiglierei di scrivere la lettera che non abbiamo mai avuto il coraggio di scrivere o quella che vorremmo lasciare ai nostri cari quando non ci saremo più» aggiunge.
In questa carrellata di alternative, non vanno dimenticati i social, oggi forse la forma diaristica più diffusa, che ha superato il carattere di segretezza delle rilessioni di un tempo. «Si racconta sui social chi scommette su una cosa in cui io credo molto, cioè il fatto che scrivere non è mai trascrivere: mentre scrivi scopri cose che non avevi chiaro prima» aggiunge Stefano Laffi, sociologo dell’agenzia di ricerca sociale Codici. «Scrivere un post è come iniziare un dialogo con se stessi, tentare di restare vigile anche in assenza di un ambiente sociale: è come insomma mettersi il rossetto anche se non si deve uscire, vestirsi se si deve restare in casa, svegliarsi alla solita ora anche se non si va in ufficio».
Sceneggiare il mondo a piacere
«È un tempo eccezionale questo. Quando passerà faremo fatica a recuperare traccia di quel che stiamo vivendo. Provate a rileggere i discorsi e i commenti di fine febbraio, quando l’epidemia era agli inizi: ci sembrano irresponsabili e inconsapevoli, eppure allora vedevamo così la situazione, e solo perché ne abbiamo scritto possiamo rendercene conto. Tutto ciò vuol dire che in quei giorni sentivamo più forte l’esigenza di rassicurarci e relativizzare, non di proteggerci. Se i momenti tragici comportano privazioni, la scrittura compensa» precisa Laffi, che conclude offrendo come spunto la riflessione di Francois Truffaut sul privilegio del suo mestiere («Cambiare la realtà e farla avvenire in un film»). Volendo, anche noi abbiamo l’occasione di “risceneggiare” il mondo.
L’articolo #iorestoacasa e scrivo: perché tenere un diario fa bene sembra essere il primo su iO Donna.