Si può affermare che lo sport, nella sua analisi più profonda, abbia due facce. E proprio come in una moneta, un lato è tanto curato quanto l’altro. Eppure, quasi sempre, chi la possiede è più interessato a una metà piuttosto che all’altra: di solito – e non a torto – quella con su scritto il “numerino” che sta a indicarne il valore. Ma se questa fosse veramente più importante, quale sarebbe il senso di dedicare cura e attenzione anche alla produzione della faccia opposta?
Lo sport ha due facce: da una parte – quella del “numerino” – vediamo il rilievo ben definito dell’atleta, della squadra, del coach e di tutto ciò che vi sta dietro. Volendo sintetizzare in una singola formula: il valore dello sport è dato da chi produce lo sport stesso – produzione di spettacolo, tecnica e cultura.
Sull’altra faccia, invece, c’è chi, di tutto questo, gode. O meglio: non tanto lo spettatore, quanto la narrazione dello sport che viene comunicata a quest’ultimo. È questa quella parte della medaglia che tutti vedono, ma alla quale pochi prestano davvero attenzione. È possibile, oggi, immaginarsi una qualsiasi competizione senza una mediazione tra l’atleta e il tifoso? È il giornalista che rende mito un grande sportivo, così come è il telecronista a dare una quarta dimensione alla gara. E ci sono ovviamente delle regole, magari non scritte, che rendono uno spettacolo più o meno appetibile.
Storytelling è un termine che sta entrando sempre più nel vocabolario italiano, e mi dispiace per gli assassini seriali di inglesismi, ma tradurlo con “narrazione”, per quanto accettabile, non è ancora corretto fino in fondo. Di fatto, l’espressione italiana non porta ancora addosso certe accezioni che invece quella inglese veste dalle origini (un esempio su tutti, la possibilità di associare il termine a qualsiasi campo della comunicazione, perfino il modo di vestirsi la mattina).
Questa pratica ha una struttura complessa, ma le fondamenta sono solide e lineari: quella che nello sport è una delle più importanti è la contrapposizione tra eroe e antagonista. Nel nostro caso questo rapporto ha una peculiarità in più, infatti i ruoli sono interscambiabili. Difficilmente un “cattivo” rimarrà tale per sempre (e viceversa); questa scelta spetta in parte al narratore, ma ancor di più allo spettatore.
È altrettanto vero che un atleta dotato di una spiccata personalità può dare un grande aiuto nella costruzione del proprio personaggio. Il biathleta francese Emilien Jacquelin ha fatto impazzire un intero popolo nella tappa di Le Grand-Bornand, ma avrebbe avuto lo stesso valore senza la bandiera tricolore sventolata nel rettilineo finale e quelle braccia fiere incrociate davanti al petto? Il volo, mimato con le braccia, di Wout Van Aert nella vittoria della quarta tappa del Tour, le “smorfie” – per non dire altro – di Petter Northug o la magnesite lanciata in aria da LeBron James. Tutto ciò rende più semplice la trasformazione da atleta a personaggio.
Ora veniamo invece ai grandi antagonismi. Qui la mia riflessione si ferma ad un bivio: dopo l’epoca delle Tre Corone del tennis (Federer, Nadal e Djokovic) e del duello tra Messi e Ronaldo (Cristiano), sembra difficile creare nuove sfide ultradecennali. Ma per quale motivo?
Una possibilità è di tipo storico: riusciamo ad apprezzare consapevolmente queste dinamiche solo quando giungono a capolinea e noi iniziamo a sentirne la mancanza.
L’altra possibilità è più banale e schietta: siamo nel bel mezzo di un periodo di transizione e dobbiamo rassegnarci ad aspettare.
Certamente le obiezioni contro questo discorso possono essere molteplici: rimanendo nel mondo del calcio, si ripone grande speranza nel duello tra Haaland e Mbappe. Tuttavia, il primo gioca in Inghilterra, mentre l’altro detta legge nell’Île-de-France: troppe le differenze per poter fare un paragone che non risulti solo una “chiacchiera da bar”. Nel ciclismo su strada c’è un Bimbo che su questo pianeta non ha ancora mai trovato un degno avversario (in anagrafe Tadej Pogacar), nonostante la sfida “Van Aert-Van Der Poel” rimanga affascinante. Purtroppo però, gli interessi dei due corridori si intersecano solo in una parte della stagione.
Guardiamo infine la NBA, il massimo campionato di pallacanestro al mondo: la tendenza ormai avviata è quella di un’eccessiva attenzione al contratto e alle player option. Si parla sempre meno di anelli e di dinastie, termini ormai nostalgici – soprattutto il secondo, escludendo Golden State, eccezionale eccezione. La diretta conseguenza è che la rivalità tra franchigie è ormai rimasta solo nei cuori dei tifosi, poco o nulla invece in quelli dei diretti interessati. Parlare in termini generali serve a ben poco, quindi l’ultimo esempio che propongo è l’odissea che stanno portando avanti Durant e Irving, alla disperata ricerca di un salvatore che li porti via da Brooklyn.
Lo sport sta sicuramente cambiando e con esso cambiano i modi di raccontarlo, ma volendo paragonare queste dinamiche a quelle di una lingua (sempre di comunicazione si tratta), possiamo dire con sicurezza che ormai la grammatica è ben definita. Certamente, i tempi infinitamente più ristretti e le innumerevoli nuove dimensioni da dove poter seguire tutto ciò che accade nel mondo rendono quasi irriconoscibili quelle regole. In realtà ciò che cambia non è la grammatica, ma semplicemente la forma. Dalla radio alla TV, dalla TV allo streaming e ora grazie a Twitter la possibilità di interagire in tempo reale con giornalisti e addetti ai lavori.
Insomma, una continua evoluzione. Eppure siamo – e saremo – sempre innamorati di poche, semplici, antiche parole:
C’era
Una
Volta…
Perché lo sport per metà è fatto di persone, per l’altra metà di fiabe ed emozioni.
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