È l’unica stagione “che stagioni non sente”. Né primavera né pandemia, né inverno né quarantena. La stagione dell’essere madre ha un tempo solo suo: con quel “confine tra gioia e dolore” più incerto di tutti gli altri confini tracciati in ogni altra cosa della storia e del mondo. E continua fino al compimento suo. Quella di Valentina, per esempio, è finita come doveva finire martedì. Con lei, moglie del Paziente uno di Codogno, contagiata a sua volta, che ha partorito la sua prima figlia al Sacco di Milano: Giulia. “L’unico desiderio che ho”, aveva detto il Paziente uno che si chiama Mattia, ha 36 anni ed è finalmente guarito, “è potere assistere alla nascita di mia figlia”. Difficile ce l’abbia fatta.
Le nascite in videocall
La stagione dell’essere madre è forte, ma questi giorni va aiutata e protetta. E ha visto i reparti svuotarsi dei parenti, i controlli fatti a distanza, i corsi preparto in streaming e i futuri padri piangere in collegamento via Skype. La nascita in videocall, alla vita non manca l’originalità. Il parto avviene normalmente (compatibilmente con l’anormalità di questi giorni), con una mascherina sul volto della partoriente e nessuna indicazione particolare sul tipo: cesareo o naturale non fa differenza per la sicurezza. Le ricerche non hanno trovato presenza di Coronavirus nel sangue del cordone ombelicale, nel liquido amniotico o nel latte materno.
Niente abbracci
E quindi no, il male non si trasmette dalla madre al feto durante la gravidanza. Potrebbe farlo dopo, e pure per questo in cliniche come la Mangiagalli di Milano evitano l’abbraccio dopo la nascita, lo “skin to skin” (pelle della madre a contatto immediato con la pelle del neonato). Appena nato, il bambino riceve il test del tampone. Il primo atto della sua vita, presumibilmente dopo il pianto. Il secondo è quello della foto, quasi sempre venuta male ma subito inviata via Whatsapp a nonni, parenti, amici e social.“Oggi è nata Victoria Luce alle 8.34”, scrive nonna Francesca postando la foto ricevuta dalla figlia.
Il travaglio in isolamento
Il resto è adeguamento all’eccezionalità. All’ospedale di Novara una femmina e un maschio sono nati da due mamme positive, senza particolari complicazioni. In India una coppia ha chiamato i suoi gemelli Covid (il bimbo) e Corona (la bimba). A Pantelleria, dove il reparto nascite è stato chiuso a febbraio, le partorienti dell’isola sono costrette a prendere un aereo, partire per la terraferma e andare in uno degli ospedali delle grandi città siciliane. Al Fatebenefratelli-Isola Tiberina di Roma i dottori mostrano con orgoglio il loro percorso protetto inaugurato per consentire il travaglio in assoluto isolamento alle mamme positive. A nord di Milano le ostetriche ancora girano casa per casa per aiutare le future mamme a fugare dubbi o recuperare energie. Federica Massaro, ostetrica di Roma, in quei momenti là vede “le donne aggrapparsi ai nostri occhi, che sono l’unica parte del volto non coperta dalla mascherina”. Hanno paura, e non hanno il conforto del papà del bambino o della propria madre. “Sono assetate di sicurezza, di stabilità”. La sua missione è “lasciare un ricordo meraviglioso di questo giorno in un momento terrificante”.
Aumenteranno le nascite?
Che ne sarà, di questi giorni, tra nove mesi? Ci sono due correnti. La più dubbiosa pensa che i concepimenti possano calare. A fare da deterrente, ha detto per esempio il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo, “è la prospettiva di un futuro” incerto. La più entusiasta parla già di boom di nascite. Gli americani, che più di tutti hanno il gusto dei neologismi, si sono inventati i “quaranteen”: i teenager del 2033 che sono stati concepiti durante questa quarantena. Ritirano fuori “l’effetto blackout” del 1965. Nove mesi dopo il megablackout di quell’anno a New York, gli ospedali della città registrarono un picco delle nascite. È l’effetto dell’isolamento di quella notte al buio, si convinsero entusiasti. La stagione non sente blackout né uragani né pandemie. Solo se stessa.
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