Pronti per l’ultima profezia? Un nuovo studio, risultato della collaborazione tra un team internazionale di scienziati coordinato dall’università di Nanchino prova ad approfondire l’impatto del surriscaldamento globale sull’habitat umano. Anche se gli esseri umani hanno dimostrato di poter vivere in quasi tutti i climi (gli Inuit nell’Artico, i beduini nei deserti del Nord Africa), la stragrande maggioranza dell’umanità ha sempre abitato in regioni in cui le temperature medie annue si aggirano tra i 6 e i 28 gradi, l’ideale per la salute e per la produzione alimentare. Insomma gli esseri umani, come qualsiasi animale o pianta, hanno un clima preferito, una nicchia ambientale in cui prosperano. Il cambiamento climatico, crimine contro l’umanità per cui siamo i principali indiziati, sostiene lo studio, sposterà oltre un miliardo di persone – costrette a sfuggire la calura – fuori dalla “comfort zone” in cui hanno prosperato per almeno 6.000 anni, con conseguenze drammatiche.
29 gradi, la temperatura media
Ma quanto caldo farà e chi sarà a soffrire di più? Nello scenario peggiore delineato dallo studio, aree che attualmente ospitano un terzo della popolazione mondiale raggiungeranno una temperatura equivalente alle zone più calde del Sahara entro 50 anni. All’incirca il 30% della popolazione mondiale sarà costretta a sopportare una temperatura media di 29 gradi, una condizione estremamente rara al di fuori delle zone desertiche. Le zone più colpite saranno India, Nigeria, Pakistan, Indonesia e Sudan.
«La maggior parte degli habitat è definito dalla temperatura. I pinguini si trovano solo in acqua fredda e i coralli solo in acqua calda. Ma non ci aspettavamo che gli umani fossero così sensibili» ha spiegato al Guardian uno degli autori dello studio, Marten Scheffer della Wageningen University. «Ci consideriamo molto adattabili perché usiamo vestiti, riscaldamento e aria condizionata. Ma, in effetti, la stragrande maggioranza delle persone vive – e ha sempre vissuto – all’interno di una nicchia climatica che ora sta cambiando a una velocità mai sperimentata prima».
6.000 anni nella nicchia
Qualche ragione di ottimismo, e proprio in virtù della notevole capacità di adattamento che in questi 6 millenni abbiamo dimostrato di avere, arriva da Nick Longrich, paleontologo e biologo dell’evoluzione dell’Università di Bath. «La nostra specie si estinguerà?» si chiede su The Conversation, sito che ospita interventi di ricercatori e accademici. «La risposta breve è sì. I fossili di cui disponiamo mostrano che alla fine tutto si estingue. Quasi tutte le specie che siano mai vissute, oltre il 99,9%, sono oggi estinte. Molte di loro lasciarono dei discendenti, la maggior parte – plesiosauri, trilobiti, brontosauri – non l’ha fatto». E questo vale anche per altre specie umane. L’uomo di Neanderthal, Denisovans, l’Homo erectus, infatti, sono tutti spariti, lasciando la loro preziosa eredità all’Homo sapiens. La domanda da porsi non è se ci estingueremo, ma quando.
A nostra sfavore c’è il fatto che siamo esseri vulnerabili. Animali di grandi dimensioni, a sangue caldo come noi non reagiscono bene ai cambiamenti ambientali, anche brevi interruzioni della catena alimentare causate da catastrofi (vulcani, riscaldamento globale, ere glaciali, asteroidi) possono risultare letali. Le tartarughe e i serpenti, animali a sangue freddo, invece possono sopravvivere anche per mesi senza cibo. Non gioca a nostro favore nemmeno il fatto che viviamo a lungo e che abbiamo lunghi tempi di gestazione, senza contare che facciamo pochi figli. Caratteristiche che in passato hanno condannato i mammut, i bradipi di terra e altri grandi animali.
L’uomo, grande colonizzatore
Ma niente paura, perché la nostra “stranezza” potrebbe rappresentare la carta vincente. «Innanzitutto, siamo ovunque. E storicamente gli organismi diffusi se la cavano meglio durante le catastrofi. Abitare una vasta area geografica significa che una specie non mette tutte le sue uova in un paniere. Se un habitat viene distrutto, può sopravvivere in un altro» scrive Nick Longrich. Gli orsi polari e i panda, che abitano zone ristrette, sono in pericolo. Orsi bruni e volpi rosse molto meno. Gli umani sono, tra i mammiferi, i colonizzatori di maggior successo, abitano tutti i continenti, le remote isole oceaniche, habitat diversi come deserti, tundra e foreste pluviali. E non siamo solo dappertutto, siamo abbondanti. Con 7,8 miliardi di persone, siamo tra gli animali più comuni sulla Terra. Anche supponendo che una pandemia o un attacco nucleare elimini il 99% della popolazione, milioni di noi comunque sopravviverebbero. Infine siamo generalisti. Le specie sopravvissute all’asteroide che uccise i dinosauri si basavano raramente su un’unica fonte di cibo. Erano mammiferi onnivori o predatori come alligatori e tartarughe. Gli umani mangiano migliaia di specie animali e vegetali. A seconda di ciò che è disponibile, siamo erbivori, piscivori, carnivori, onnivori.
Ma soprattutto, ci adattiamo a differenza di qualsiasi altra specie, attraverso comportamenti appresi – cultura, non Dna. Un’adattabilità che a volte ci rende i nostri peggiori nemici. Cambiare il mondo a volte significa cambiarlo in peggio, creando nuovi pericoli: armi nucleari, inquinamento, sovrappopolazione, cambiamenti climatici, pandemie. E a poco serve fare di tutto, come ha saputo fare l’uomo, per mitigare questi rischi con trattati nucleari, controllo dell’inquinamento, pianificazione familiare, energie rinnovabili, vaccini. Insomma siamo stati così bravi da riuscire a evitare ogni trappola che noi stessi abbiamo fabbricato. Finora.
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