È giusto vincere facendo meno punti?

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Siamo da sempre abituati nello sport al fatto che chi giochi peggio possa comunque vincere, magari con l’aiuto di un po’ di fortuna. Lo siamo perché sappiamo che l’unica cosa che alla fine conta per vincere, è il freddo numero.

Chi fa più gol, che sia con i piedi, con le mani o con una mazza, chi ottiene un punteggio migliore, chi fa un tempo inferiore, alla fine vince.

Anche gli sport più artistici e meno confrontabili come ginnastica artistica, tuffi o pattinaggio artistico sono costretti ad affidarsi alla tirannide dei numeri per poter stilare una classifica, con il discreto inconveniente di delegare il giudizio di una prestazione ad un occhio umano che, per quanto esperto, non sarà mai un criterio assoluto.

E al numero non importa nulla del come ma solo del quanto, lui è lì per sintetizzare la tua prestazione e il tuo sforzo e confrontarlo in maniera diretta con i numeri dell’altro o degli altri, per dirti se hai vinto o se hai perso o la tua posizione in classifica.

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Se quindi non conta che quel numero derivi da una grandissima pulizia tecnica o da una grossa mano della dea bendata, è naturale che si possa anche vincere senza necessariamente dimostrarsi superiori.

Tuttavia, e a questo siamo molto meno abituati, esistono sport in cui anche l’ineccepibile legge matematica viene meno. In questi sport (come pallavolo, tennis e tennistavolo), una mente decisamente diabolica ha deciso di non fare un unico conteggio dei punti dei due contendenti ma di suddividere la partita in set (nel tennis ci si è spinti oltre dividendo addirittura i set in game).

E quindi sì, chi vince più punti (o game) vince il set e chi vince più set vince la partita, ma questo non impedisce di vincere facendo nel complesso meno punti dell’avversario.

Solitamente il dramma, per lo sconfitto, si consuma con qualche set vinto facilmente e qualche set di troppo perso sul filo di lana, l’avversario che esulta vistosamente e la consapevolezza che la partita avrebbe potuto facilmente prendere una direzione più favorevole.

Ma è giusto dare la possibilità di vincere una partita facendo meno punti dell’avversario? Come si può stabilire che un giocatore (o una squadra) sia stato superiore all’altro e quindi meritevole di vincere se anche la cruda matematica, nel complesso, gli dà torto?

Mentre sembra semplice accettare una vittoria in cui, anche senza eccessivo merito, si fanno comunque più punti dell’avversario, rimane più difficile digerire una vittoria in cui, alla fine, a contare è la distribuzione dei punti durante la partita più che il totale degli stessi.

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L’epitome della vittoria con meno punti complessivi è la finale di Wimbledon 2019. Federer vince più punti (218 a 204, il 51,7% del totale) e più game (36 a 32) di Djokovic ed in generale è avanti in praticamente tutte le voci statistiche ma è il serbo a portarsi a casa il trofeo.

finale di Wimbledon 2019

Lo fa principalmente grazie alla capacità di vincere i tre tiebreak giocatisi nei set dispari e di annullare due match point consecutivi nel sedicesimo gioco del quinto set sul servizio di Federer. Quest’ultimo fatto va assolutamente contro le statistiche, che vedono alla fine lo svizzero portare a casa il 68,5% dei punti sul proprio servizio ma neanche uno dei due che gli avrebbero portato il nono titolo sull’erba londinese, testimoniando forse ancor di più dei tre tiebreak l’abilità di Djokovic di alzare il livello nei momenti topici della partita (o se preferite il calo di Federer negli stessi momenti).

Esempio più fresco nella memoria è il quarto di finale di pallavolo maschile delle Olimpiadi di Tokyo fra Italia e Argentina.

Gli azzurri, sulla carta leggermente favoriti, vincono bene il primo set (25-21), guidano per larghi tratti del secondo cedendo però nel finale (23-25), perdono anche il terzo set partendo male (22-25) ma dominano il quarto set (25-14) portando la partita al tiebreak. Qui l’Italia parte meglio e guida fino a due terzi del set ma poi l’Argentina infila un decisivo parziale di 7 punti a 2 che chiude set (12-15) e quindi partita. Il totale dice che l’Italia ha vinto 107 punti contro i 100 dell’albiceleste (sinistramente il 51,7% del totale anche in questo caso) ma le porte della semifinale, e dello storico bronzo che ne conseguirà, si aprono per l’Argentina.

italia argentina tokyo

Anche in questo caso quindi la partita è decisa da un paio di momenti e da una manciata di punti rispetto al totale della partita, comunque sempre equilibrata. In particolare nel finale del quinto set, l’Argentina alza leggermente il livello con un giro al servizio particolarmente incisivo e un paio di pregevoli difese, l’Italia resta un po’ a guardare e tanto basta a far pendere la bilancia dalla parte dei sudamericani.

È evidente quindi che, anche se non importa mai il come, in questi sport più di tutti gli altri conta il quando.

Dimostrarsi superiori nei passaggi cruciali del match è certamente un’abilità, che rientra nell’ambito mentale dello sport, al pari di saper eseguire alla perfezione un gesto tecnico o essere fisicamente scintillanti. Riuscire a tirar fuori il meglio del proprio repertorio quando davvero conta è quindi giustamente premiato dalla suddivisione del punteggio ben oltre la mera somma complessiva dei punti. All’opposto, chi invece in quegli stessi momenti decisivi vede un calo delle proprie prestazioni è condannato a vedersi battuto da avversari semplicemente più cinici.

D’altronde, una giocata di qualità effettuata al momento giusto non acquisisce anche un po’ di bellezza aggiuntiva rispetto alla stessa giocata ad inizio partita?

La risposta vincente anticipata di rovescio che giocate sul 40-0 perché non avete nulla da perdere, seppur intrinsecamente meravigliosa a prescindere dal contesto, non sarebbe ancor più apprezzata se vi consegnasse il break decisivo? Anche la bellezza dunque apprezza il momento.

Ed è quindi giusto in definitiva che lo apprezzi anche il punteggio. In fondo giochiamo, guardiamo e viviamo lo sport per quei pochi momenti lì, non per fare un brutale conteggio a fine partita.

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Redazione MusaNews
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