Coronavirus: lo Smart working per le donne, tra casa e famiglia, non è affatto smart

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Bello lo “smart working”, dicono

. Sì ma non per tutti. Soprattutto non per le donne, visto che il working è decisamente poco “smart”. È quanto emerge dalla ricerca #IOLAVORODACASA condotta da Valore D, l’associazione di imprese in Italia che da dieci anni si impegna per l’equilibrio di genere, che sta analizzando il mondo del lavoro in Italia in questo periodo di grande criticità dovuto all’emergenza Coronavirus.

La casa rifugio? Più gabbia

La casa perde il suo significato di rifugio e diventa  più una gabbia: troppo grande per chi deve gestire il lavoro domestico insieme al telelavoro. Troppo piccola, per lavorare da remoto con tutta la famiglia in casa, senza che si abbia una piano dove isolarsi o una stanza in più nella quale chiudersi qualche ora.

E l’emergenza Coronavirus, che ha imposto lo stop delle scuole, la chiusura delle attività «non essenziali» e che ha incoraggiato il lavoro da remoto è un fardello che pesa ancora una volta sulle donne.

Il dato positivo…

Il dato positivo confermato è che, per dare continuità al proprio business ma soprattutto tutelare la salute dei dipendenti, le aziende che sono ricorse ad un uso massiccio dello smart working, sono una percentuale molto alta, dimostrando di essere stati pronti ad affrontare momenti critici.

E quello negativo

Il problema è un altro: e cioè che, per quanto riguarda le donne, lo smart working si trasforma in extreme working. In questo periodo, 1 donna su 3 lavora più di prima e non riesce, o fa fatica, a mantenere un equilibrio tra il lavoro e la vita domestica. Confermando appieno che la responsabilità della cura famigliare continua a gravare in prevalenza sulle donne. Lavoro da casa e lavoro di casa: praticamente lavoro 24 su 24.

Se qualcuno pensava che lavatrici, giochi con i figli e cucinare potessero andare d’accordo con call, riunioni virtuali e concentrazione necessaria per lavorare, ecco che alla prova dei fatti queste idee vanno in fumo. Lo smart working, come più volte ribadito, richiede una grande disciplina personale, la ricerca di una postazione di lavoro tranquilla e isolata, orari determinati, tutti aspetti non facili da mettere in atto in un momento di convivenza familiare forzata.

Se è imposto non è così smart

Insomma, chiamiamolo smart working quando davvero lo è, e cioè quando non siamo costretti a gestire contemporamente i figli, anche loro in lontananza forzata da scuola, il marito o i genitori anziani. O la spesa, le faccende di casa, le incombenze, che sbrigavamo anche prima, ma in un tempo organizzato tra l’uscita e il rientro a casa.  

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Lo sarebbe se, proprio momenti di crisi come questi, potesse aiutare a sviluppare una maggiore corresponsabilità genitoriale che alleggerisca la donna dal duplice carico famigliare e professionale.

Parola chiave? Resilienza

Come la stanno vivendo le lavoratrici? Sembrano avere una forte tenuta emotiva: oltre il 60% delle donne che ha risposto ha espresso sentimenti “positivi e di rinnovamento”. Il restante 40% , però, vive questo periodo con “ansia, rabbia e confusione

La generazione delle Millennials si sente molto più confusa rispetto alle Baby Boomers (22.8% le prime contro il 6% delle seconde).

La “resilienza” è un aspetto che caratterizza in modo importante la fascia femminile sopra i 40 anni. Oltre il 48% di loro ha espresso una forte capacità di affrontare e superare questo periodo di difficoltà, contro l’11% delle donne sotto i 30 anni.

In compenso, la “speranza” è un sentimento trasversale che in questo momento accumuna le donne di tutte le generazioni con un leggero incremento tra chi ha meno di 40 anni.

Qualche vantaggio?

Qualche positività possiamo comunque trovarla. Intanto, il lavoro agile è meritocratico: si è valutati in base ai risultati che si portano e non per il tempo che si passa alla scrivania. E poi, ci guadagna l’ambiente perché meno traffico vuol dire meno inquinamento. 


È vero, ci guadagnano molto anche le aziende che possono ridurre gli spazi, pagare affitti più bassi e bollette più leggere, avendo allo stesso tempo una produttività del lavoro più alta. 

Insomma, diciamo che lo smartworking non è né buono né cattivo: quello che stiamo facendo oggi è un telelavoro in emergenza, e non è un’opzione ma un obbligo, e serve per tenere in piedi il Paese.

Ma quando finirà l’incubo coronavirus e sarà ripristinata la normalità, si cercherà di negoziare al meglio questa modalità, a livello individuale, aziendale e nei contratti collettivi. Possibilmente senza fare differenze di sesso e condizione familiare.





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