#BlackOutTuesday: l’hashtag contro le discriminazioni razziali

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“Se resti neutrale in una situazione di ingiustizia, hai scelto la parte dell’oppressore” – Desmond Tutu.


È questa una delle frasi che circolano maggiormente sui social in questi giorni, dopo la morte per asfissia di George Floyd, l’afroamericano 46enne che si è spento il 25 maggio scorso dopo che l’agente di polizia Derek Chauvin l’ha bloccato a terra, premendo il ginocchio sul suo collo per più di 8 minuti.

Negli Stati Uniti di profilazione razziale si muore

Il video che incrimina il poliziotto ha fatto il giro del mondo e le parole pronunciate a fatica da Floyd, “I can’t breathe” (non riesco a respirare), sono diventate l’urlo disperato con cui la comunità afroamericana (e non solo!) chiede giustizia per tutte le persone di colore vittime, nel vero senso della parola, di profilazione razziale. Con questa espressione si intende l’analisi comportamentale condotta dalle autorità ai fini investigativi che prende di mira persone straniere. Alla base di questa pratica i pregiudizi razziali profondamente radicati nella società e, in particolar modo, tra alcuni rappresentanti della polizia che, macchiandosi di abuso di potere, sfruttano la propria posizione per colpire determinate persone scelte secondo criteri quali il colore della pelle e l’etnia.

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Negli Stati Uniti si arriva a morire per profilazione razziale e George Floyd è solo l’ultimo di una lunga lista di nomi. Basti pensare che dal primo gennaio 2015 sono stati 1252 i neri colpiti e uccisi dalla polizia. A dar voce alle vittime innocenti di questo sistema istituzionalmente razzista e alle loro famiglie ci pensa il movimento Black Lives Matter, (le vite dei neri contano), nato nel 2013 con l’obiettivo di eradicare la supremazia dei bianchi e costruire poteri locali per intervenire nei confronti della violenza inflitta ai neri da parte dello stato e dei vigilanti”.

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Cos’è il #BlackOutTuesday

È sulla scia del Black Lives Matter che ieri, 2 giugno 2020, Instagram è stato invaso da immagini nere accompagnate dall’hashtag #BlackOutTuesday. Così le proteste che stanno “infiammando” le città statunitensi e si sono diffuse a macchia d’olio fino a raggiungere, in poco tempo, anche le capitali europee, sono approdate sul social network per sensibilizzare le coscienze collettive sul dramma della violenza razziale e fare informazione (consapevole) sul tema.

L’iniziativa è partita originariamente dall’idea di Jamila Thomas, dirigente dell’etichetta discografica Atlantic Records, e Brianna Agyemang, sua ex collega, che venerdì scorso hanno proposto di sospendere momentaneamente la pubblicazione di nuovi contenuti per non distogliere l’attenzione da ciò che sta accadendo negli Stati Uniti e mostrare piena solidarietà a chi è sceso in strada per chiedere giustizia e un trattamento più equo da parte di autorità e istituzioni nei confronti delle persone di colore.

Il razzismo va combattutto ogni giorno

Subito dopo il tragico evento, Will Smith ha condiviso sui suoi canali social una frase su cui sarebbe opportuno fermarsi a riflettere: “Racism is not getting worse. It’s getting filmed” (il razzismo non sta peggiorando. Viene filmato). Un’affermazione con cui l’attore intende sottolineare quanto questo sentimento sia una costante mai pienamente debellata e che l’unica differenza col passato è che oggi sia più “facile” registrare gli episodi di cui si è vittime/testimoni per poterli denunciare.

Dunque, quando pensiamo alle persecuzioni razziali e alle discriminazioni, non occorre tornare con la mente alla Seconda Guerra Mondiale o all’Apartheid in Sudafrica. Il razzismo è un virus che continua a mietere vittime giornalmente, sotto i nostri occhi, ora più che mai con l’avvento dei social: facciamo in modo che non ci siano altri George da piangere e, nel nostro piccolo, impegniamoci a essere non soltanto contro il razzismo ma attivamente anti-razzisti.

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