Botteghino pieno ma critica avversa.
La versione del 2017 di Assassinio sull’Orient Express firmata da Kenneth Branagh, alle 21.25 sull’ammiraglia della Rai, ha avuto questo doppio record. Che però non è mica così insolito nel cinema. Tanto che, come nel caso di altri successi giudicati però con severità, non ha certo fermato Branagh dall’iniziare un piccolo franchise sulle spalle della grande romanziera di gialli inglese, Agatha Christie. Pronto per quest’anno c’è la seconda trasposizione di un suo classico, Assassinio sul Nilo. Ma per quanto riguarda l’omicidio sul treno leggendario che collegava la Gare de l’Est di Parigi a Costantinopoli, rispetto al film del 1977 in cui un cast che comprendeva (tra gli altri) Ingrid Bergman e Lauren Bacall dava peso e sfumature a una vicenda di indagine nobilitata dall’eccezionalità del luogo, i grandi mezzi messi in campo dalla Fox non sono riusciti a ottenere la stessa epicità del film di Sydney Lumet.
Eppure, anche qui sono stati sbaragliati nomi grandissimi. Da Johnny Depp nel ruolo di Rachett, l’assassinato, a Michelle Pfeiffer, Judi Dench, un’ancora sconosciuta Olivia Colman, la giovane Daisy Ridley, Willem Dafoe, Penélope Cruz. La vera star è però un’altra, cioè i baffi di Kenneth Branagh. La cui ricerca pare abbia impiegato un tempo lunghissimo. Si capisce, tra i tratti di Hercule Poirot, il detective belga (da non scambiare per francese) che si trova al centro di questa strana combriccola di passeggerei tutti potenziali assassini, sono quelli più appariscenti. Poi c’è la perfezione maniacale, la superiorità nei gesti e nello stile, le famose cellule cerebrali, le ritualità, l’intuizione straordinaria, la logica, la spocchia (anche), e la fede nella ragione che tutto risolve e tutto smaschera. Kenneth, di questo colosso letterario, rifiuta la descrizione fatta dalla Christie. E invece del fisico pingue e la testa a uovo inclinato, gli infonde vivacità e pure una discreta agilità.
Una bellissima confezione
Insomma lo svecchia. Lo umanizza pur mantenendolo dandy. Però lo fa come oggi si chiamano le operazioni di reinvenzione: restyling. Che al solo sentirle non comunicano mai niente di buono. Agatha lo odiava il suo Hercule, e ne aveva ben donde: era insopportabile, macchinoso, pedante. Ma la persistenza dell’incrollabilità morale del suo personaggio che poi invece se non altro si incrina raggiunto l’esito a cui lo porta l’indagine di questo assassinio complicatissimo e pieno di depistaggi, risultava più efficace nell’Hercule aderente alla parola scritta di Albert Finney.
Allo stesso modo le possibilità contemporanee della descrizione spaziale di un treno in corsa nel paesaggio innevato europeo, dolly e carrellate che soli i droni, sono virtuosismi scintillanti che impreziosiscono la confezione, a scapito degli ingranaggi. Letterali, per un giallo. Assieme a quelli interiori. Perché un gruppo di persone (spoiler) colpevole e unito come fosse un’Idra è un congegno affascinante da esplorare. Il pubblico poi lo sa già, almeno la maggior parte. Sarebbe dunque stato più interessante una regia che depistasse alla stesso modo. Non già solo con alcuni cambi di set: la resa dei conti sul finale fuori dal treno; con caratteri tridimensionali.
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