Si definiva un hooligan con ago e filo: creativo, imprevedibile, un po’ arrogante. Il ritratto di Peter Ettedgui, sceneggiatore e co-regista del documentario sullo stilista inglese, suicida nel 2010, che oggi avrebbe 50 anni
“Lee Alexander McQueen aveva un’abilità paragonabile, forse, solo a quella di Wolfgang Amadeus Mozart per la musica. Come si spiega altrimenti che, lasciata la scuola giovanissimo, riuscì comunque a farsi assumere in aziende all’avanguardia, come Savile Row o Romeo Gigli, dove sapeva che avrebbe imparato il mestiere? Non solo era capace di assimilare alla svelta, ma sapeva anche improvvisare, come quando alla sua prima sfilata realizzò un abito con la pellicola trasparente per alimenti e una zip”.
Peter Ettedgui, sceneggiatore e co-regista con Ian Bonhôte del documentario Alexander McQueen – Il genio della moda (in uscita il 10 marzo 2019), parla così dello stilista morto suicida nel 2010, a 40 anni. Il film, che celebra l’estro creativo di colui che amava definirsi “un hooligan con ago e filo”, ricostruisce gli inizi, quando il ribelle Lee cuciva insulti nelle fodere delle giacche destinate al principe Carlo, e le prime sfilate messe in piedi con due soldi, ma mosse da quello spirito provocatorio che l’avrebbe accompagnato tutta la vita. Il tutto attraverso interviste a collaboratori, parenti, amici e a materiali d’archivio, alcuni davvero sorprendenti.
“Siamo riusciti a recuperare un’intervista audio inedita”, spiega Ettedgui, “in cui Lee parla del proprio rapporto con la cocaina e di altre questioni private. In fondo è come se esistessero due McQueen: Lee, il ragazzo carismatico e creativo con cui tutti volevano lavorare, e Alexander (come decise di chiamarsi su consiglio della sua amica giornalista Isabella Blow): la superstar globale, paranoica, che in preda alle droghe poteva trasformarsi in un mostro, come racconta il suo collaboratore Sebastian Pons”.
Questa ambivalenza è ben raccontata nel documentario. E alla fine sembra emergere l’avversione di McQueen per quel tipo di icone della moda in cui poi avrebbero trasformato anche lui.
La sua metamorfosi psicologica e fisica, da grassoccio, insicuro e trasandato a magro, elegante e un po’ arrogante, è stata stupefacente. Alcuni amici dicono che non vi si sia mai adattato fino in fondo, altri dicono che il cambiamento non fu radicale come poteva sembrare. Non direi che odiasse il mondo della moda, anche se a volte lo faceva arrabbiare. In fondo aveva mantenuto la mentalità da commerciante: suo padre tassista gli diceva che per avere successo coi vestiti doveva andare a venderli al Brick Lane Market.
Nelle sfilate sembrava mettere, come Bergman nei film, le proprie nevrosi e angosce. Highland rape, il titolo del famoso show del 1995 in cui fece sfilare modelle con lenti a contatto bianche e abiti strappati, come se fossero state appena stuprate, a molti è sembrato una citazione delle molestie subite da McQueen bambino da parte del cognato.
Credo che la sua fosse una forma di espressione unica, intima com’era, in un’industria commerciale, anche se non vi si trovavano solo la violenza e l’oscurità, riferite a quanto gli era accaduto, ma anche la bellezza e la luce. È questo contrasto a rendere la sua arte così interessante. Era come un grande impresario che metteva in scena uno show, dove c’erano i vestiti, ma anche abilità da regista, fotografo, circense, performer.
Per Highland rape fu aspramente criticato, a causa dei segni di violenza esibiti sulle donne. Pensa che oggi, in tempi di #MeToo, sarebbe andata diversamente?
Sicuramente. Quello show era in anticipo sui tempi, perché usava una contrapposizione tra donne abusate e donne forti. Lui voleva raccontare la storia di donne che si ribellavano all’idea di essere dipinte sempre come vittime. Ma il pubblico non capì. Equivocarono anche la presenza in passerella di Aimee Mullens, modella e atleta amputata, alla sua sfilata No.13, con le protesi: pensavano volesse sfruttare una disabile, ma in fondo lui stava dicendo che la bellezza si trovava anche in persone che la moda non prendeva mai in considerazione. Perché anche lui era un reietto: un gay in fuga dall’East End, culla della working class omofoba.
Si può costruire un parallelo con un altro “disadattato” come Freddie Mercury? Anche lui all’inizio era considerato poco cool, era un immigrato coi denti storti, ma anche un genio. E come McQueen conduceva una vita sregolata fatta di droghe e partner occasionali che gli fecero contrarre l’Hiv.
Il paragone funziona, perché, oltre a un’origine da outsider e alle abitudini di vita, avevano in comune anche una forza creativa travolgente e un’etica del lavoro fortissima. Certo, quando Lee scoprì di essere sieropositivo si sarebbe potuto curare. Ma la pressione cui era esposto, il suicidio della sua amica Isabella e la morte della madre devono avergli fatto pensare di non avere più nessuna via d’uscita.
Fonte articolo: elle.com