Massimo Gramellini: «Il mio diario di padre confuso e felice»

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Massimo Gramellini, editoralista del “Corriere della Sera”, Tommaso e la mamma Simona Sparaco (foto di Giuseppe Di Piazza).

Un anno fa, quando di anni ne avevo appena cinquantotto, è nato Tommaso, mio figlio. La prima volta che l’ho stretto tra le braccia, ancora avvolto da uno strato di crema giallognola, ho provato la sensazione che fosse più antico di me.

Mi guardava con affettuosa severità, come se fosse al corrente di qualche segreto che comunque non aveva alcuna intenzione di rivelarmi.

L’ultima persona ad avermi guardato in quel modo era stato mio padre. Sarà vero che il carattere salta una generazione? Lo ignoro, ma poiché è vero ciò in cui crediamo, mi sono convinto che Tommaso sia la versione (per ora) miniaturizzata dell’uomo che ho amato e che mi ha amato, nonostante fossimo molto diversi.

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Un tempo credevo che in amore si attraessero gli opposti, ma da quando ho conosciuto la madre di Tommaso non ne sono più così convinto.

L’amore di coppia funziona meglio tra simili. Io e Simona passiamo il tempo a capirci e a perdonarci, e persino nella trama dei nostri rari litigi è già scritta la condivisione finale.

Ma c’è un amore differente, primordiale e misterioso, e lo sto sperimentando con mio figlio, dopo averlo vissuto da un’altra prospettiva con mio padre. Un amore che non pretende di essere capito o addomesticato.

Mi è stato chiaro fin da quel primo contatto in ospedale: Tommaso non sarà mai il mio avatar, a cui a dare le imprese che a me non sono riuscite: eccellere in uno sport e imparare bene le lingue.

Non dico che non potrà diventare un formidabile atleta poliglotta. Ma, se lo diventerà, sarà per realizzare un suo desiderio, non per colmare un mio vuoto.

In questo primo anno di tommasitudine, ho sperimentato la persistenza di un pregiudizio che credevo dissolto. Riguarda i ruoli del padre e della madre.

Anche nel ventunesimo secolo una madre deve sempre sembrare felice di esserlo. Se si fa vedere stanca, prostrata, nervosa e insofferente, il mondo la giudicherà un’ingrata.

La maternità è l’Eden, la migliore delle condizioni possibili: come osa costei lamentarsi per le notti in bianco passate a vegliare un esserino che frigna in modo ossessivo?

La madre deve mostrarsi all’altezza dello stereotipo che i secoli le hanno disegnato addosso: emanare luce, pace e sorrisi “materni” (appunto).

Il padre, al contrario, secondo il pensiero dominante, farebbe meglio a non mostrarsi troppo felice di esserlo.

Ogni volta che esibisco le foto di Tommaso sul telefonino o mi incanto a narrare le sue gesta, mi accorgo di essere guardato dagli altri maschi (e anche da qualche donna) con degnazione, come si scruta la vittima di un sortilegio o di una dipendenza.

All’improvviso mi sento patetico. Chiedo scusa. Ma non smetto di parlarne, confermandoli così nella convinzione che si tratti di una dipendenza. Ormai ci gioco anche su.

Il mio racconto preferito è “La prima volta che Tommaso…” declinabile all’infinito, come una serie tv di successo. La prima volta che Tommaso ha preso in mano un cracker. La prima volta che è caduto e si è rialzato da solo. La prima volta che guardandomi ha biascicato “pa…pà” e sono bastate due sillabe per farmi sentire l’eternità di un istante.

Nel libro “Prima che tu venga al mondo”, scritto da Massimo Gramellini (edito da Solferino) il racconto dei mesi dell’attesa.

Il baule dei miei “tesori”

Per non farmi mancare niente, dopo la sua nascita ho scritto un libro che parla dei mesi dell’attesa. Vorrei tranquillizzare i lettori: non sono previsti sequel, al di fuori di questo articolo.

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Dopo Prima che tu venga al mondo non usciranno Ruttino e pregiudizio e Alla ricerca dell’asilo perduto.

Quello che volevo dire a mio figlio l’ho messo in quel libro e nel baule che ne costituisce il capitolo conclusivo, dove ho infilato gli oggetti a me più cari, una sorta di tangibile eredità spirituale.

Il mio primo disco in vinile (The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, comprato a 14 anni con 4500 lire) e il mio pezzo degli scacchi preferito, l’imprevedibile cavallo, perché c’è qualcosa di più appagante che fare meglio degli altri quello che fanno tutti ed è fare meglio che si può qualcosa che non ha ancora fatto nessuno.

Un film, Big Fish di Tim Burton, e il biglietto di un derby tra Juve e Toro in cui la squadra più debole (la mia), sotto di due gol, ne segnò tre e vinse – il tutto in tre minuti! – insegnandomi che a volte si può rimontare persino l’impossibile, basta smettere di pensare che lo sia.

E ancora: una cartina geografica comprata in Australia, con l’Africa sopra l’Europa e Milano sotto Palermo, perché quella che chiamiamo “realtà” è sempre una questione di punti di vista.

E infine la poesia If di Kipling, un vangelo laico a cui ho aggiunto per gioco qualche altro “Se”. Come questo, che vorrei Tommaso imparasse a memoria: «Se apparterrai alle persone che ami, senza pretendere di possederle».

Lo so, sarò un padre anziano. Però…

Durante le presentazioni del libro, mi hanno chiesto se non mi sentivo egoista ad avere messo al mondo una creatura che crescerà con un padre anziano e poi defunto o rincoglionito.

Bella domanda. Ma forse a rispondere non può essere uno come me, che ha perso la madre a nove anni, ed era una madre ancora molto giovane.

Per ragioni autobiografiche ho dovuto convincermi che tutto sia sempre giusto e perfetto, anche il dolore, figuriamoci l’amore.

Crescere un figlio sulla soglia dei sessant’anni è qualcosa di innaturale? Siamo una specie in evoluzione su un pianeta in evoluzione. Il concetto di “naturale” deve fare i conti con questa verità.

Non posso negare che, mentre aspettavamo Tommaso, mi capitasse di perdermi nella matematica delle mie nevrosi: quanti anni avrò quando lui andrà a scuola? E quanti ne avrò quando si innamorerà per la prima volta e quando per la prima volta soffrirà per amore? Ma adesso che Tommaso c’è, ci penso di meno. 

Ieri sera facevamo il gioco del pacco, che consiste nel fingere di lanciarlo verso le braccia protese di sua madre: ogni volta che lo sollevo e lo riprendo, lui prova l’ebbrezza del volo e impazzisce di piacere.

Al quinto “lancio” ho sentito le mie spalle indolenzite e ho pensato: vent’anni fa non mi sarei stancato così in fretta. Ma poi lui si è rannicchiato tra le mie braccia e ha sorriso. Così ho pensato: forse vent’anni fa le mie braccia sarebbero state più forti, ma meno accoglienti.

Quel maschile bisogno di parole

E adesso è arrivato il momento della confessione più difficile, forse più inattesa. Mio figlio non mi ha ancora cambiato davvero la vita. E non lo ha fatto per una semplicissima ragione: perché non parla.

Non mi ero mai reso conto di quanto noi maschi siamo condizionati dal “verbo”. Molto più delle donne.  Lo sperimento ogni volta con i genitori di Simona.

Entrambi sono impazziti per Tommaso, ma mio suocero, pur essendo il maschio più dolce che conosco, dopo un po’ si annoia di comunicare con una creatura il cui vocabolario risulta al momento composto dalle seguenti parole: «“Ma-ma”, “Pa-pà”, “Da-da” (Diego, primo figlio di Simona, nonché vero padrone di casa), “Ciopi-Ciopi” (significato imperscrutabile) e “Gnam-Gnam” (significato fin troppo chiaro).

Invece mia suocera è capace di restare ore a guardarlo dormire, a carpirne ogni smorfia, a trasformarsi in attrice comica pur di strappargli un sorriso.

Succede lo stesso nelle case in cui ci sono persone molto anziane da accudire. Le donne sono più brave di noi a comunicare con chi non parla ancora e con chi non parla più.

Penso dipenda dal fatto che in un corpo amato sentono pulsare la vita, senza bisogno di doverla ingabbiare in un recinto di segni convenzionali come le parole.

Quanto mi piacerebbe essere come loro. E invece mi sorprendo a guardare Tommaso con insofferenza: “Figlio mio, ti decidi a dirmi qualcosa?”. Mentre mi sta dicendo già tutto, sono io che non sono capace di capirlo.

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